Di seguito l'intervista a Markus e il racconto della sua pazzesca salita al Cerro Torre, pubblicata su Gazzetta Gold
“Perché quando fumo
una sigaretta mi sento in una situazione
di normalità. Se fumo una sigaretta significa che il vento non è poi così forte
ed il tempo è buono per scalare. Quindi se posso fumare, allora posso anche
scalare! Può sembrare un po’ pazzo, ma
sì, è proprio così. Mentre fumo ho inoltre il tempo per pensare ai prossimi
metri di salita”.
Conclude questa affermazione digitando una faccina che si
scompiscia dalle risate, e te lo puoi immaginare lui, Markus, mentre batte con
le dita sulla tastiera e nel frattempo se la ride. Effettivamente non fa una piega: se puoi
fumare allora ce la fai anche a scalare!
L’aveva già fatto nel 2013, impiegandoci poco più di tre ore
e con il bel tempo. Ora l’ha rifatto, sempre in free solo, ma questa volta
sotto una tempesta. Forse non sarà uno dei maggiori conoscitori del Cerro
Torre, la guida alpina austriaca Markus Pucher, ma sicuramente con la sua
impresa è stato capace di guadagnarsi un posto (e che posto!) nella storia
dell’alpinismo patagonico. Perché la sua avventura, che cerchiamo ora di
approfondire, ne ha davvero dell’incredibile. Un alpinismo dal retrogusto
romantico, fatto di passione, dolore e sofferenza e, perché no, anche un po’ di
follia. Lo dice lui stesso, definendosi un po’ “crazy guy”.
Si trova ancora in
Sud America e ci rimarrà fino al 16 gennaio, la data prevista per il rientro in
Austria. Proprio questa mattina Markus è partito nuovamente (da El Chalten)
alla volta del Cerro. E l’ultima, esclusiva chiacchierata prima della partenza,
l’ha fatta ieri sera proprio con noi.
L’obiettivo, ci ha raccontato, è salire qualcosa di nuovo
sulla parete West. Anche questa volta le condizioni meteo non sembrano
propriamente favorevoli, ma Markus non è uno che si arrende. Come ha già affermato,
semplicemente, lui non è “gli altri”. Il suo motto “hai sempre una chance e la devi cogliere, cosa stai aspettando?”
fa venire voglia anche a noi, seduti comodamente sul divano, di prendere
piccozze e ramponi e di partire, alla volta di quello che sembra impossibile.
Parlare con lui e pensare che si trova ancora dall’altra
parte del mondo, ancora impegnato ad inseguire i propri sogni, è
affascinante. Abbiamo appreso nuove
informazioni circa il free solo del 27 dicembre e la storia delle tre
sigarette, fumate tanto per rendere “normale” quanto stava accadendo
tutt’intorno, diventa una semplice nota di colore in un racconto molto più
avvincente. Ma partiamo proprio da quella.
Quando è partito da Filo Rosso, alle sei di mattina del 27,
il massiccio era completamente avvolto da una fitta nebbia e la visibilità
molto scarsa. La neve fresca, abbondante, rendeva faticoso anche
l’avvicinamento alla parete. Al Col de la Esperanza Markus si è fermato per la
prima pausa- sigaretta, giusto in tempo per vedere due alpinisti di ritorno dal
Cerro, scoraggiati dalle condizioni atmosferiche troppo severe. Ma lui, quel
giorno, si sentiva in forma e voleva vedere fino a che punto fosse possibile
scalare la montagna, in condizioni di maltempo. Alla base dell’Elmo e
successivamente durante la salita, altre due sigarette, per staccare la testa e
pensare che “it’s ok”.
I tratti di misto una volta passato l’Elmo gli si presentano
completamente sommersi dalla neve e, sempre a causa della scarsa visibilità, è
difficile trovare la via di salita. “Tant’è
vero che – questa è la sua dichiarazione nel racconto di Garibotti – mi sono ritrovato più di una volta a salire
dalla parte sbagliata, troppo a destra rispetto all’itinerario della Via dei
Ragni, e a dover correggere il tiro. Ad un certo punto, quando non sapevo più
bene da che parte andare, quando gli occhiali e le mani erano completamente
congelati, ho pensato se non fosse il caso di scendere, ma l’ignoto che stava
sopra di me mi attirava molto di più della via che mi ero lasciato alle spalle”.
In un punto particolarmente ostico, tutto d’un tratto, vede
una conformazione nevosa simile ad un
half-pipe e che gli sembra più sicura. Quindi scala all’indietro per circa 5
metri e attraversa la parete verso destra. Si trova ai piedi di un canale stretto,
troppo stretto. E qua inizia la sua folle lotta per salire.
“Il vento soffiava
verso l’alto e la mia faccia era colpita dai cristalli di ghiaccio portati
dalla tempesta – racconta. – Impossibilitato
a vedere, stretto nel canale, ho iniziato a farmi strada verso l’alto con tutte
le mie forze, perché salire era l’unica cosa che potevo fare”.
Sono le sette di sera quando arriva in vetta. Si sente al
centro dell’universo. Ce l’ha fatta. Lui e la tempesta, ed il Cerro Torre,
ovviamente. Non sa ancora che la sua avventura è solo a metà. Davanti a lui c’è
ora la discesa. Dispone di sessanta metri di corda e tre viti da ghiaccio. I
ramponi e le piccozze sono, ormai, i prolungamenti naturali dei suoi arti. Gli
ancoraggi sulla via di discesa sono ricoperti da neve ghiacciata e, come ha
detto egli stesso, ci sono voluti creatività ed ingegno per scendere.
Dopo l’ultima calata ha continuato a scalare all’indietro
fino a che i piedi, ad un certo punto, scivolano.
Anche le becche delle piccozze non sono più impiantate nel ghiaccio. Sta
cadendo. E cade, al rallentatore, in slow
motion dirà lui, ribaltandosi all’indietro. Lui l’ha chiamato Vertical
Limit, citazione tratta da un drammatico climbing film hollywoodiano. La mente
gira veloce e in quel “vertical moment” e si vede passare davanti agli occhi
tutta la sua vita. Ma le braccia sono più veloci della testa: pianta in manico
delle piccozze a terra e miracolosamente si ferma, a poca distanza da un salto
di 1300 metri. “In questi momenti non
riesci a pensare a niente, la tua concentrazione è al 100% perché sopravvivere
diventa il tuo unico obiettivo. Tutto accade velocemente e anche i movimenti
diventano automatici. Solo dopo, quando tutto è finito, hai tempo di pensare e
realizzi quanto è accaduto”.
Ma non è finita. La visibilità è ancora ridottissima.
Continua a scendere verso il basso, passo dopo passo. Quando i suoi piedi
toccano un pezzo di roccia nella quale non riesce ad infilare le punte dei
ramponi, capisce di essere nuovamente in fallo. Velocemente tenta la risalita
ma ecco, impietoso, il secondo Vertical Limit. Il ghiaccio su cui sta scalando
si spezza lungo una crepa orizzontale, proprio poco sotto le sue piccozze.
Rimane su. Ancora una volta è miracolato. Oppure è il portafortuna regalato
dalla figlia a proteggerlo. Una domanda sorge spontanea. Di cosa si tratta?
“Appena posso te lo faccio
vedere, il talismano che mi ha regalato la mia bambina! – dice. – Lo ha fatto lei, con le sue mani, e me lo ha
regalato prima che partissi per la Patagonia. E’ un fantasmino. Un piccolo
fantasmino verde”.
Nel frattempo sono arrivate le 23 ed è sceso il buio. La
frontale si scarica e Markus non può continuare. Deve trovare un riparo dove
trascorrere le prossime ore. Trova un crepaccio e ci si cala dentro.
Trascorrono cinque ore prime che riveda la luce e, finalmente, la salvezza.
“Faceva maledettamente
freddo - racconta – Ho fatto esercizi
per rimanere al caldo. Tiravo pugni al vento, muovevo braccia e gambe, facevo
dei piegamenti. Ma l’unica cosa che mi veniva in mente era… una zuppa di
pomodoro. Una deliziosa e calda zuppa di pomodoro. Il vero problema? Che non ho
potuto fumare un’altra sigaretta: il mio accendino era bagnato!”.
Con la sua simpatia, con il sorriso e la risposta pronta,
Markus sdrammatizza ogni cosa. Ma è arrivato il momento della domanda seria.
“One question Markus, one more”. Il free solo, lo sappiamo, comporta la
decisione di non proteggersi durante la salita. Perché? Qual è il senso di
questo salire senza margine d’errore?
“Il free solo è la mia
vera salvezza - risponde – Mi
permette di salire velocemente e di non rimanere a lungo in parete. Quando
salgo senza corda mi sento a mio agio, libero e in intimità con me stesso. Se
non mi sento sicuro, al 100%, di poterlo fare, allora non lo faccio”.
Tatiana Bertera
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