martedì 30 giugno 2015

30/06/2015 Manolo: l'arte di arrampicare e non solo

L’incontro con Maurizio Zanolla, in arte “Manolo”: uno dei volti più conosciuti dell’arrampicata sportiva mondiale. Arrampicatore, ma anche sciatore, runner, bikers… Soddisfazioni e amarezze di una vita segnata dall’arrampicata.

ARTICOLO PUBBLICATO SU OUTDOOR MAGAZINE 
www.outdoormag.it


Un bellissimo ritratto di Maurizio by K. Dell'Orto
Ho incontrato per la prima volta Maurizio Zanolla su una pista da sci. Fa ridere, può sembrare assurdo, ma è proprio così. Il Mago, la leggenda dell’arrampicata, se la volteggiava su due assi da telemark, con tutta la delicatezza e l’eleganza che contraddistingue questa specialità. Era il 22 febbraio scorso e Zanolla era stato invitato in veste di “special guest” alla tappa livignese del Land Rover Winter Tour. Io giornalista e blogger per l’evento, lui ospite speciale. Quando seppi che il personaggio che quel fine settimana avrebbe rappresentato la nota casa automobilistica inglese sarebbe stato Manolo, non volevo crederci. La prima domanda, a mio parere lecita, fu “Cosa c’entra Manolo con lo sci?”. In Italia, probabilmente nel mondo, il suo nome è indissolubilmente legato alla roccia, alla verticalità, al free solo, agli “appigli ridicoli” e, al massimo, al celeberrimo motto di Sector: “No Limits”.

UNO SPORTIVO A 360GRADI
Durante quel fine settimana, invece, tra una pista e una risalita in seggiovia, Maurizio ha raccontato della sua passione per lo sci, specialmente per il telemark. E’ strano immaginarselo mentre accompagna i clienti a fare scialpinismo sulle sue montagne: le Dolomiti. D’altra parte Zanolla, non dimentichiamolo, è guida alpina!
Se poi scopri che, arrampicata a parte, ama anche andare in bici e correre, e che i suoi tempi sono di tutto rispetto anche senza allenamento, allora decidi che “l’uomo Manolo” ha tanto da raccontare e che vale la pena cercare di approfondire la conoscenza.

Manolo in fuori pista by K. Dell'Orto
Foto ricordo del Land Rover Winter Tour 2014/2015, con Manolo e Michela Toninel by K. Dell'Orto

L’INCONTRO
E così ti ritrovi, ad un paio di mesi di distanza, in viaggio alla volta del Trentino con il navigatore puntato su una via a su un civico che apparentemente non esistono. Mappa del paese alla mano, non senza qualche difficoltà, arrivi alla sua abitazione.
Poco distante dal centro abitato e con vista sulle sue montagne, questa piccola perla nel cuore delle Dolomiti è frutto del suo lavoro. Un vecchio maso tutto legno e pietra, il recinto dei cani ed un piccolo orto con tanto di spaventapasseri intenti a fare la guardia. Le pietre locali conficcate in verticale nel terreno, sulla strada a fondo chiuso (chiuso da casa sua!), richiamano il profilo delle vette e danno all’avvicinamento un non so che di mistico. Il tetto, dal quale pendono le bandierine nepalesi, racconta di paesi lontani.
Fuori c’è lui, con la bandana in testa e quegli occhi color ghiaccio, che aspetta sorridente. Sistema i quattro carboni che ancora ardono sul braciere di fronte a casa e ti offre un caffè in una tazza troppo grande.
Fare quattro chiacchiere, seduti dinanzi alla sua baita, circondati da oggetti e foto che per lui sono “normali” (ma a me sembrano “cimeli”) è emozionante.
Maurizio è un fiume in piena: racconta, a volte anche saltando da un discorso all’altro, ma racconta. Certo non è quell’essere schivo e solitario che alcuni amano dipingere. Forse non un personaggio mediatico, poco uso al grande pubblico e non amante della confusione, ma racconta e questo è quello che conta.
Dietro a lui, appeso al muro in una cornice semplice, un disegno di Mauro Corona. In casa una scultura rappresenta una figura umana, china su se stessa. Testimonianze di un’amicizia importante, ricca di aneddoti e ricordi forse mai raccontati.

ph. by. Calza

ALPINISMO, RISCHIO E CONSAPEVOLEZZA
Racconta così del suo modo di concepire la montagna e di come questa concezione si sia evoluta nel tempo.
“Sono un sopravvissuto, perché in montagna non esiste l’essere sicuri al 100%. In montagna gli incidenti succedono e spesso non sono prevedibili: il pericolo esiste, eccome! Quello che però ho sempre cercato di fare, anche nel periodo in cui scalavo in maniera molto più rischiosa, è stato imparare dai miei errori. Oltre all’evidente fortuna, necessaria anche nella vita di tutti i giorni per sopravvivere, trovo che in un terreno selvaggio e di avventura come quello alpinistico sia fondamentale avere una grande consapevolezza di responsabilità, caratteristica che mi ha portato a compiere scelte libere, ma che crescevano insieme a me, con la crescita altrettanto lenta dell’esperienza. Credo che sia stata proprio questa mancanza di sicurezza esterna che mi abbia portato ad averne una più solida, interna. Vivevo e vivevamo (per scelta) una forma di alpinismo di rivolta, slegato anche dalla sicurezza dei chiodi, lontano da qualsiasi contatto, in luoghi difficilmente raggiungibili. Nessuno sapeva dove eravamo davvero e le decisioni erano condivise e accettate dal compagno di viaggio. Non esistevano mezzi di comunicazione e tantomeno di soccorso immediato, ma proprio per questo la nostra attenzione era sempre altissima. Non avevamo molte informazioni ed eravamo continuamente di fronte a scelte difficili (ma responsabili) e a noi questo in fondo piaceva”.

ph. by M. Mocellin

 SBAGLIARE (MA NON TROPPO!) PER IMPARARE
“E’ stato un percorso voluto e cercato, eravamo liberi di vivere la nostra esperienza, magari in bilico fra il coraggio e l’incoscienza intrinseca di quell’età, ma che sicuramente ci ha aiutato a superare preconcetti e difficoltà. Gli errori servono e mi sono serviti per crescere: chi non sbaglia mai è sicuramente qualcuno che delega ad altri decisioni e scelte. Dagli errori e dalle sconfitte, anche da quelle piccole e personali, si impara e si cresce, anche se purtroppo non tutti riescono a crescere attraverso l’esperienza vissuta. Se devo essere sincero non mi sono sempre comportato in un modo razionale in quei luoghi, ma non ho mai delegato a nessuno questa responsabilità e tantomeno quella di un fallimento e a volte solo questo mi ha permesso di riuscire. Da soli la montagna è più pericolosa, ma la scelta è più facile e non è condizionata da nessuno: viene da una decisione interiore e istintiva arricchita appunto da un approccio di umiltà e rispetto con l’ambiente ed è un vantaggio…”.
Fare, sbagliare, imparare per non sbagliare più: una filosofia che è anche una lezione di vita.

QUESTIONE DI FISICO O DI TESTA?
Allenamento o bravura? Manolo non ci pensa due volte…
“Il talento da solo non porta da nessuna parte. Con la motivazione, il sacrificio e l’allenamento si possono sì raggiungere grandi traguardi, ma alla fine se mancano talento e forza mentale è davvero molto difficile. C’è chi nasce naturalmente portato per la verticalità, chi per essere veloce e chi per essere resistente. Io ad esempio non mi sono mai allenato in maniera seria durante i primi anni, le prestazioni sono venute da sole, arrampicando. Ho sempre amato camminare, andare in bicicletta e anche correre, attività che ho sempre svolto con grande (a volte addirittura esagerata) intensità e non credo che questo mi aiutasse molto nell’arrampicata sportiva. Solo negli ultimi anni, per fare le ultime prestazioni, ho iniziato ad allenarmi in un modo specifico e mirato. Anche se i tempi di recupero si sono rivelati molto, troppo lunghi ormai. L’allenamento estenuante ha inoltre peggiorato la salute già precaria di tendini e legamenti”.


ETERNIT: LA VIA-MANIFESTO DELL’ARRAMPICATA IN PLACCA
La sua attività culmina il 24 agosto 2009 con Eternit, nella falesia del Baule. Verticalissima, liscissima, con appoggi e appigli quasi inesistenti, questa via è la massima espressione del suo stile di arrampicata. Gradata 9a e ancora irripetuta (anche da Adam Ondra, considerato tra i più forti, se non il più forte, al mondo), Manolo l’ha definita come “la via che apre la scalata su placca verticale ad una nuova dimensione, oltre che un itinerario estenuante, che fa male alle dita, ai piedi e alla testa”. Eternit ha richiesto uno sforzo estremo, unito a tempi di recupero molto lunghi.
Definita da Andrea Gallo, che ha assistito Manolo in una delle salite, il manifesto dell’arrampicare, questa via non richiede semplicemente allenamento, quello non sarebbe di per sé sufficiente, ma padronanza totale del gesto arrampicatorio in relazione al tipo di roccia.

ph. by Zorzi

 ETERNIT: LE POLEMICHE E LA RISPOSTA DI MANOLO
Ad Eternit, il tuo ultimo capolavoro, sono purtroppo seguite delle polemiche. A queste tu non hai mai voluto rispondere apertamente. Vorresti ora prendere una posizione e controbattere un articolo pubblicato senza che nulla ti fosse chiesto e che ha screditato (agli occhi dei diffidenti e malpensanti, non di chi ovviamente ti stima) la tua immagine?

“Per quanto riguarda Eternit cosa vuoi che ti dica… io non sono l’unico frequentatore della falesia… Trovo invece molto strano che un direttore di un’importante rivista del settore, in 20 anni, non mi abbia mai fatto nemmeno una domanda, una telefonata, insomma non mi abbia mai parlato o chiesto nulla. Posso comprendere una decisa antipatia ma non la trovo una grande correttezza professionale. Mi sembra piuttosto arrogante il fatto di trovare impossibile un passaggio perché manca una crosta grande come mezza unghia se non l’hai mai provato com’era prima (anche se credo che le cose non cambierebbero nemmeno se ci fosse ancora). Tra l’altro stiamo parlando solo della parte bassa, quella più facile, di “Ho ce l’hai o ne hai bisogno”, ed è solo l’avvicinamento alla via vera e propria. Quel passaggio potrebbe anche essere diventato più facile e… se invece è diventato così insuperabile, come posso averlo ripetuto dopo quasi tre anni di inattività a quei livelli e poco dopo uno stop di 6 mesi per doppia frattura al gomito e la rottura di una costola? Senza calcolare l’età naturalmente! E questo lo possono confermare almeno quattro arrampicatori, fra i quali Adam Ondra. Ma soprattutto: chi ha detto che quello sia l’unico modo per passare e che sia il più facile? La morfologia ed i metodi usati possono rendere molto soggettiva la difficoltà. Alla fine credo che Eternit sia una bellissima via e che abbia segnato davvero un cambiamento in questo tipo di scalata, almeno per me. Non ha nulla a che vedere con tutte le altre salite di questo genere che ho realizzato, per difficoltà ed impegno (forse Roby Present l’avvicina un po’, ma è comunque molto diversa). A volte è solo questione di provare senza pregiudizi e senza pretendere di riuscire subito e comunque. Eternit è una bellissima via e forse merita più rispetto.
Voglio raccontarti un aneddoto…Un giorno, salendo per provare un altro progetto che avevo in una falesia più avanti, ho incontrato casualmente un arrampicatore che stava provando da solo top rope la via e mi sono fermato molto in disparte incuriosito a guardarlo. Poco dopo se ne è andato, ma la cosa l’ha talmente indispettito che pochi giorni dopo mi ha inviato una mail di insulti e minacce, dai termini piuttosto volgari .Strano anche questo…”

ph. by K. Dell'Orto 

mercoledì 24 giugno 2015

12-13 giugno 2015 Il MIO Millet Garda Climbing Challenge - Arco di Trento e Riva del Garda

Del mio lavoro, la gente, vede solo il "bello". E così la frase classica è "Tu... che quando lavori vai in giro a divertirti! Sarà poi lavorare quello!?". All'inizio mi arrabbiavo un po'. Pensavo (e a volte rispondevo) che non è tutto oro quel che luccica (sono una donna scontata vero??!), che le ore passate davanti allo schermo a scrivere, a fare ricerca,  a mandare mail, quelle nessuno le vedeva. Che al termine dell'evento, o della gara, quando gli altri si sentivano liberi di far festa, io me ne tornavo a casa (e di corsa) per scrivere e consegnare tempestivamente. Questo una volta, perchè ora che tanto a certi ritmi ci sto facendo il callo, quando mi dicono "Tu che per lavoro vai in giro a divertirti...", sorrido e rispondo "Sì, vero, sono dannatamente fortunata perchè faccio il the best lavoro in the world"! Non è sempre così, intendiamoci, ma mi piace che gli altri lo pensino e poi... e poi non ho il tempo di annoiarmi. Anche ora, che sono le 4:15 di notte, che sto scrivendo sul mio blog perchè il "lavoro che mi fa andare in giro a perdere tempo divertendomi" mi ha tenuta sveglia per portare avanti delle consegne imminenti, anche ora credo che sia fantastico.

Come super è stato il week end trascorso tra Arco e Riva per seguire l'evento organizzato da Millet.
Millet, il brand organizzatore dell'evento
Un'esperienza davvero unica, che merita di essere conosciuta. Anzitutto perchè è gratis, cosa che per l'arrampicatore medio non è secondaria (su un giornale questo non si potrebbe mai scrivere, ma questo è il mio blog, vale a dire lo spazio nel quale regno sovrana e nel quale tutto mi è concesso, per cui lo dico!!). E poi perchè è un'occasione per davvero!

Due giornate organizzate dal brand transalpino Millet con lo scopo di avvicinarsi al consumatore finale, capirne le esigenze, far testare i propri prodotti (nel caso specifico scarpette d'arrampicata) e offrire due giorni di puro e sano divertimento, senza però dimenticare (perchè pur sempre di arrampicata si parla) il fattore sicurezza. Tutte le attività sono state infatti coordinate dalle guide alpine di Mountime, sponsorizzate da Millet (abbigliamento e materiale) e che si occupano di gestire la parete del Rock Master ad Arco di Trento.

Durante il pomeriggio di venerdì (l'evento si è spalmato sulle due giornate di venerdì e sabato, chissà che il prossimo anno non possa essere organizzato interamente nel fine settimana!?) abbiamo scalato sulla parete del Rock Master. Bello. Non ci sono altre parole. Stare lì, insieme a persone semplici, simpatiche, che condividono la tua stessa passione, e per di più tirare le prese di quel muro che normalmente vedi solo in foto o sui video del Rock Master, è stata un'emozione. 

Sulla parete del Rock Master

Per non parlare della gara di Speed Climbing che ha animato la serata, commentata dalla guida alpina Alessandro Beber (in veste di speaker), che oltre a bravo e bello, scopriamo essere pure brillante. Beh, per tornare alla gara, mi sono ritrovata ingaggiata in una sfida diretta col Valse (alias Fabio Valseschini, alpinista lecchese, l'uomo delle solitarie, ecc...)... devo dire come è andata a finire? Che lui è arrivato al top in un batter d'occhio, mentre io ero ancora a metà. Ma il Valse è il Valse, e gli si perdona tutto, anche questo!

Speed Climbing
Il giorno successivo è stato...spaziale! Deep Water Solo sul Garda, sulla parete di Serenella. Con i pedalò siamo arrivati fin sotto la falesia e poi, calzate le scarpette, via ad arrampicare. Se la sottoscritta (essere assolutamente poco acquatico) si è limitata a fare i traversi restando ad un paio di metri (al massimo) dall'acqua, le guide (come il già citato Beber e Stefano Angelini) hanno
dato spettacolo saltando da diversi metri nelle acque fortunatamente non troppo fredde del lago. Qualche arrampicatore (coraggioso) ha saltato... molti altri, come me, hanno preferito scalare a filo dell'acqua.

Folli(e) in pedalò
L'esperienza è stata comunque divertentissima. Mai e poi mai avrei pensato, io che non amo l'acqua, di esaltarmi così tanto scalando fino a che le dita non sono più in grado di stringere la roccia e poi saltando in acqua. Sicuramente da ripetere! Grazie a Millet, sicuramente... e anche a quel lavoro che a volte non mi fa dormire, ma che altre volte mi regala emozioni indimenticabili!

Io... a filo d'acqua #conigliaforever
Beber e Angelini a ..qualche metro dall' acqua

lunedì 22 giugno 2015

21/06/2015 Direttissima Loss - Piccolo Dain - Valle del Sarca

Lungh: 250 m (8 lunghezze)
Diff: VI+/A1/R3/III

E poi? E poi finalmente arriva il giorno che torni a fare una via. Quando la scalata diventa (per mancanza di tempo, di motivazione, ecc...) un lontano ricordo, non ti rendi neppure più conto di come possa essere trovarsi con 100 metri di vuoto sotto il sederino. Parlo di emozioni. Parlo di sensazioni. Cento che poi diventano 200m e così via, fino a che esci da un tettino esposto e pensi "Porca vacca ma chi me le fa fare 'ste cose?".
Il vuoto, quando non ci sei più abituata, fa sempre una certa impressione. Quel misto di eccitazione e paura, di esaltazione e timore, quella cosa della quale poi ti sembra di non poter più fare a meno.
E poi, quando ad un tiro dalla dalla fine, seduta su una cengia guardi prima il lago e la parete sotto di te, poi il tuo compagno di cordata fumarsi una sigaretta col sorriso stampato, allora capisci qual è il senso di "fare 'ste cose"!

La parete sulla quale sale la via
La Parete, da sotto, è imponente e cattiva. Mano mano che ti avvicini, salendo lungo il veloce sentiero che porta all'attacco (occhio all'avvicinamento su cenge decisamente esposte), la prospettiva cambia e, sebbene incuta sempre un certo timore reverenziale, sembra più accessibile. I muri, ad un primo sguardo apparentemente lisci, appaiono ora più lavorati, e i tetti...ma sì, in fondo i tetti si possono anche aggirare no?!

La Loss è una classicissima e storicissima via della Valle del Sarca. 250 metri di storia, suddivisa in 8 capitoli (lunghezze... ma a me la metafora del libro piace!) tutti da gustare. Dal diedro, ai passaggi aerei, alla placca di movimento: su questa via marchiata 1970 c'è proprio tutto e non si corre il rischio di annoiarsi. Anzi, capita che esci da un dietro ben "ammanettato" e che ti spiattelli sulla placca ed è a quel punto che dici "ma perchè?...".
E' chiaramente una via di stampo alpinistico, che corre lungo la parete grigio/gialla sfuttandone i punti deboli e valorizzzandone i tratti più estetici. Spettacolari sono il grande diedro rosso del secondo tiro (VI+), oltre al driedro giallo (VI) e al tetto (A0 oppure 7a) del sesto e settimo tiro. Aerei, estetici, roccia fantastica e solida (come su quasi tutta la via) e qualche passaggio dal quale riesci, guardando giù giù, in mezzo alle gambe, vedere la sosta da cui sei partito, 200 metri sotto...
Certo che poi quando "il socio" parte in scarpe da ginnastica e calza le scarpette solo per il tiro di 7a e la placca di 6b (o 6b+?)... allora torni alla dura realtà e pensi che tu neanche se ti allenassi per tutta la vita! E dopo un tiro "in ansia" (solo da parte mia evidentemente!!) capisci che tanto non cade e via che si sale. La via è davvero bellissima... e ne vale davvero la pena! Grazie, ancora una volta, a chi se la è tirata tutta !

La sosta aerea del sesto tiro
placca, 6b
uscita dal diedro rosso del secondo tiro


diedro giallo 

Mirko Biru-Corn in versione selfie (e io che faccio la parte di quella che appesa a penzoloni gli tiene l'imbrago con una mano....come dire che se cade lo tengo?? ... e gli dice "non sporgerti così tanto"... conclusione: il vuoto rende folli e fa venire strane idee!)

immancabile foto in uscita (#selfieaddicted)



lunedì 8 giugno 2015

09/06/2015 Diego Servalli: sulle ali del vento dal 1989...ora voli anche senza vela. Ciao!

Pugno nello stomaco! Doccia fredda! Apri Facebook e una news ti gela il sangue nelle vene. Il tuo volto, il tuo nome, quel fatidico "Non ce l'ha fatta l'uomo con le ali" rende tutto così reale. E subito ti dici "No, non Diego, lui sapeva volare...". 
E infatti, caro Diego, non ti ha tradito la vela. Non una termica. Non un temporale improvviso... Non ci saresti mai cascato. Ti ha tradito la strada. E lasci noi, una bellissima moglie, i tuoi piccoli.
Ti omaggio ripubblicando il servizio che avevamo costruito insieme per l'Eco di Bergamo. Ce ne è un altro, realizzato sempre insieme, e insieme all'amico Sergio Nestola, per la rivista Orobie. Mi sarebbe piaciuto vedere la tua faccia, una volta pubblicato. Il tuo sorriso largo e buono. 
Ciao Diego.




Silenzio tutt’intorno. Poi parte la prima brezza che, leggera, sfiora il viso. Nell’aria solo la voce di Diego, l’istruttore. “Senti il vento che si alza. Ascoltalo bene. Da dove arriva? Dai, questo è il momento giusto”. Fabio, che da qualche mese frequenta il corso è lì, pronto e concentrato, lo si vede. E allora tre, due , uno, via. Muove qualche passo lungo il pendio e la vela si gonfia sopra la sua testa. “Aspetta che sia sopra, non avere fretta – urla Diego. Poi tutto d’un tratto la vela è imponente, perpendicolare sopra di lui. E’ il momento di correre a perdifiato verso il basso, con il busto proteso in avanti. Fa giusto in tempo a muovere ancora qualche passo e poi, quasi senza che se ne accorga, i suoi piedi si allontanano dal suolo. Sta volando.
E’ questa. E’ esattamente questa la sensazione che si prova durante i primi voli, appesi al parapendio nella Conca del Monte Farno, ai piedi del Pizzo Formico e sopra il paese di Gandino. Proprio qua, nella media Val Seriana, Diego Servalli tiene i suoi corsi di volo. La conca, chiamata dagli allievi “il campetto”, è spaziosa, priva di caseggiati o linee elettriche, protetta dalle forti correnti e soleggiata: l’ideale per approcciarsi al volo. A detta di tanti, semplicemente uno dei campi scuola più belli del nord Italia.
Oggi a lezione ci sono Fabio (dalla Valle Camonica), oltre a Manuel ed Elisabetta, bergamaschi come Servalli che, sulle ali del vento dal 1989, ha fatto della sua passione anche la sua professione.  Solo assistendo ad una lezione è possibile ridimensionare quella “paura del volo” che spesso si accompagna agli sport come il parapendio, spesso e a torto etichettati come estremi e pericolosi. I tre si mettono alla prova con i primi voli bassi e sotto l’occhio vigile dell’istruttore, con vele fornite dalla scuola (Aero Club Monte Farno) e adatte alla loro ancora ridotta esperienza, si allenano a controllare il loro mezzo. Ci vorranno almeno una ventina di voli bassi nel campetto prima di prendere quota. E ancora una quarantina,  radiopilotati dall’istruttore che li segue a vista, dal basso, per provare a prendere il brevetto per il volo libero.



“Per questo motivo i corsi, emozionanti ma allo stesso tempo impegnativi, hanno la durata di circa un anno e si compongono di lezioni pratiche e di due mesi circa di teoriche” - spiega Servalli. “L’attrezzatura, almeno fino a metà corso e fornita dalla scuola. Poi, quando l’allievo è sicuro di voler continuare nella pratica di questa disciplina, può acquistare la sua vela. Prima del corso viene proposto un volo in biposto, anche per valutare l’attitudine personale al volo. Durante le lezioni nel campetto gli allievi vengono addestrati a preparare l’attrezzatura nel modo corretto (e anche a riporla una volta terminato il volo) e ad imbragarsi, a valutare il vento e a controllare la vela attraverso brevi voli a pochi metri da terra, a manovrarla piegando in tutte le direzioni e ad atterrare in maniera dolce. Solo una volta divenuti davvero abili in queste prime manovre possono affrontare i primi voli alti, ovviamente da soli ma guidati dal basso. Devono arrivare al brevetto senza margine di errore”.
Servalli vola e vola alto, anche se da una decina di anni è uscito dal panorama delle competizioni. Nel Campionato Italiano, nei Regionali e nella Lega Piloti si è sempre ben posizionato senza però mai scadere in quel senso di competizione estrema che, probabilmente, gli avrebbero col tempo tolto la passione per il volo. Le Orobie sono le montagne che sorvola da sempre, fino a 3.300 metri di altezza. In tutte le stagioni, anche nelle terse giornate d’inverno.

“Ho iniziato 25 anni fa. Non c’erano corsi e le prime vele non erano certo come quelle di oggi. Il parapendio in Italia era uno sport assolutamente poco conosciuto, nato più che altro come modo veloce o alternativo per scendere dalle montagne. I primi voli sono stati proprio alla conca del Farno che, ancora, non era un campo scuola. Si saliva sul versante della montagna, con un amico più esperto, e si provava. Si andava un po’ da autodidatti, cosa che sconsiglio vivamente, ma venticinque anni fa di scuole non ce n’erano e provare era l’unico modo per imparare. Con gli anni sono venuti l’esperienza, il brevetto e i corsi per diventare istruttore, di parapendio e di paramotore”.