mercoledì 28 ottobre 2015

28/10/2015 E se non sapete dove è By...andate a cercarvelo!

Perchè i ricordi sono come la neve il 25 Dicembre. Può arrivare, ma non è mica detto. E quando arriva, se arriva, anche se è una cosa che hai visto mille volte, ti emoziona. Così anche i ricordi. Sei lì, che lavori, e mentre di danni su una chiavetta Usb cercando di ritrovare uno scritto perduto, si apre una cartella con delle foto. Cerchi di scacciali via, i ricordi, che ti rendi conto sopraggiungere veloci. Ci provi. "No no, non ora! Ora devo fare altro!". Ma loro arrivano lo stesso. Si impadroniscono del tuo cervello che, bacato com'è, comincia a produrre altro. Ed è così che poi, alla fine, ti ritrovi a fare di notte quello che non hai fatto durante il giorno. Tutta colpa dei ricordi. Di questi ricordi che, se non ci fossero, sarei morta.

Sapete dove è By. Io non lo sapevo e ora lo so. By è in Valle d'Aosta.

Laghetto di By
Valle d’Aosta - Conca di By. Carnagione abbronzata, fossette ai lati della bocca e scarpone pesante da montagna, don Luca è un prete. Lui, i suoi ragazzi, li porta a camminare e, con il Tavernello al posto del vin santo e la chitarra anziché le canne dell’organo, a 2000 metri celebra la Santa Messa.
Ieri mattina nella Valle di Ollomont, nei pressi del lago di By, Don Luca ha chiesto il vino per la celebrazione nella casa dove fu ospite il primo Presidente della Repubblica italiana Luigi Einaudi, prima di fuggire esule in Svizzera. A poca distanza erano state girate meno di ventiquattr’ore prima alcune scene del film dedicato anche a questo grande personaggio della storia. 

Ed io ero lì, ospite di questa casa, tra queste mura che trasudano storia. L'ho seguita tutta la Messa di don Luca, io che la chiesa la vedo solamente in occasione dei matrimoni o dei funerali. E quella predica è stata la cosa più intrisa di sacralità a cui io abbia mai assistito. 

By - casa Farinet
Ha letto dinanzi ad una cinquantina di ragazzi seduti a terra il Vangelo, concludendo con una sonora pernacchia. Tra gli sguardi allibiti dei curiosi ha iniziato la sua “predica alternativa”. “Perché al Signore, che mi chiede di cibarmi di fatiche e sofferenze, di abbandonare le novantanove pecore per andare a cercare l’unica che si è persa, io dico no, anche domani”.

Me la ridevo io, sotto i baffi, e se la ridevano i ragazzi. Perchè è una predica così che dovremmo ascoltare ogni domenica nelle chiese. Parole calde, vicine, parole che appassionano.
Terminata la funzione è ripartito con i suoi ragazzi che lo seguivano, mesti come pecorelle, ma con gli auricolari dell’I pod pigiati nelle orecchie.

La conclusione di tutta 'sta roba quale credete che sia? Che la Chiesa dovrebbe essere diversa? No, non sono tipa da fare la morale. Che don Luca è un figo e non avrebbe mai dovuro farsi Don? Forse. Ma no, la conclusione è solamente che i ricordi, quando arrivano, sono come la neve il giorno di Natale.

martedì 27 ottobre 2015

27/10/2015 Diego Servalli, sulle ali del vento ... anche ora

Questo è Diego. Diego Servalli. In Val Seriana era una specie di mito. Quello che faceva atterrare ogni anno la slitta di Babbo Natale col parapendio, tanto per intenderci. Dico "era", dico "faceva", perchè Diego non c'è più. E' morto il 5 giugno, in un incidente, e neanche per colpa sua. Qualche giorno fa, parlando con un amico, mi è tornato alla mente, questo ragazzone sempre abbronzato. Lui, il suo parapendio, il suo amore per il volo. Lui, che quando gli avevo chiesto di scrivere un articolo mi aveva portata a volare. In due, dapprima. E poi si era fidato a darmi in mano una vela e a farmi provare, da sola, nel campetto sul Farno. Qualche metro coi piedi nel vuoto... elettrizzante! "Perchè se non provi a pilotarlo, non puoi capire e non puoi scrivere, aveva detto!". E io, che folle lo sono al punto giusto, gli avevo subito risposto "Ok, come si guida sto coso che mi lancio!?".
Come dicevo, qualche giorno fa ho ripronunciato il suo nome, e mi sono scesi i brividi lungo la schiena. Quest'anno chi farà atterrare la slitta di Babbo Natale?...
C'è un articolo però, che avevo scritto per Orobie e che non andrà mai in stampa. E' rimasto qui, su un file, ed è rimasto invariato, proprio come se Diego fosse ancora vivo. Lui, in fondo, è ancora qui, se abbiamo la voglia di ricordarlo. Mi piacerebbe condividere questo scritto con le perone che lo hanno amato. Buona lettura.

Diego Servalli
Il furgone bianco corre lungo la strada che conduce al Farno. Quando finisce l’asfalto l’andatura non rallenta e sullo sterrato, tra una buca ed un saltone,  Diego guarda il cielo con aria interrogativa. Glielo chiede ad alta voce, al cielo. “Allora? Cosa vogliamo fare oggi? Ci lasci il tempo per una planata o che cosa?”. Diego sorride,  probabilmente per non tradire quella preoccupazione che, non ci può fare nulla, gli traspare dagli occhi. Mi sfiora il braccio con la stessa mano con la quale,  una volta sicuro della mia attenzione, indica le nubi che crescono come panna montata davanti ai nostri occhi. Bianche, grigie, giallastre. Da qualcuna filtra ancora qualche sparuto raggio di sole che sembra aver perso la strada. “Le vedi? Quelle fino a mezz’ora fa non c’erano. Guarda ora invece. Davanti a te, dei cumulonembi, ma si stanno dissolvendo. Quelle sono stratificate, non sono pericolose. Quelle là nere invece, guarda verso Valcava, quelle sono acqua a secchiate. Guarda quanta ne sta venendo giù. Ora ci fermiamo qua e vediamo cosa fanno”.
Parcheggia su un tornante ed esce dall’abitacolo, si stiracchia, accende una sigaretta e si appoggia ad un muretto, senza distogliere lo sguardo dal nemico. Uno alla volta i passeggeri, me compresa, trovano il loro posticino in mezzo alla strada, chi in contemplazione del cielo, chi dell’app scaricata sul telefono cellulare e che funge da radar meteo, con tanto di lucine colorate, grafici e nuvolette che si muovono in tempo reale. L’occhio umano e l’esperienza che si scontrano con la tecnologia, anche se a vincere alla fine sono sempre loro,  le nuvole, perché fanno come gli pare.
Siamo tutti qua, con il naso all’insù, nella trepidante attesa di vedere aprirsi in cielo un buco di sereno.
Cik, ciak. Gocce grandi come noci iniziano a schiantarsi a terra e in men che non si dica ci fiondiamo tutti sul furgone che, ora lo guardo bene, non è bianco, ne’ fuori ne’ dentro. Tende più che altro al marroncino.
Ed ecco che quello che doveva essere un tranquillo lancio con il parapendio si trasforma in un’impresa alla mission impossibile. Quello che non voglio rischiare è di ritrovarmi a fare un atterraggio di emergenza, tra fulmini e saette,  o peggio di finire come una gallina arrosto. Ma Diego Servalli e Sergio Nestola sono degli esperti e hanno già intuito che passate quelle che loro definiscono quattro gocce tornerà il sereno, per lo meno sopra la conca del Monte Farno, ai piedi del Pizzo Formico.
Il sole non tarda a farsi largo tra le nuvole e noi ci stiamo già preparando a spiccare il volo.
Prima però c’è tutta la fase di “vestizione” e preparazione: caschetto e antivento in primis, perché lassù l’aria non manca. E anche un paio di guanti leggeri. Poi si distende la vela a terra e si controllano i tiranti. Diego fa le prove per accertarsi che il ponte radio, per rimanere sempre in contatto con gli altri piloti che sono in volo ma anche con chi si trova a terra, funzioni a dovere. C’è anche un’apposita strumentazione che rileva le termiche.



Solo in volo mi renderò veramente conto dell’importanza di questo aggeggio che, con il suo bip bip cadenzato, indica al pilota quando il parapendio incontra una corrente di aria calda ascensionale, la termica appunto, che permetterà alla vela di andare verso l’alto. Immagino le termiche come degli “ascensori gratuiti” che, se ben sfruttate, portano la vela sempre più in alto.
Imbragata, il cuore batte a mille. Nel volo in tandem il pilota (quello veramente capace di volare, che nel mio caso è Sergio, sta appeso dietro di me, che mi limito a fare il passeggero).
Il decollo, così come l’atterraggio, sono le due fasi in cui anche il passeggero deve collaborare attivamente.
Siamo in piedi sul pendio. Sergio ascolta il vento, pronto a darmi il segnale di via. Non appena si alza una leggera brezza mi dice”Forza ora corri più veloce che puoi lungo il pendio, spingi sulle gambe, con tutto il peso del busto proteso in avanti”. Io eseguo e corro con tutte le mie forze. All’inizio sembra di lanciarsi a capofitto verso il basso, poi uno strattone all’indietro e lui che mi dice di continuare a correre. La vela si è alzata perpendicolare sopra le nostre teste e fa resistenza. Ancora qualche passo e senza che me ne accorga i piedi non toccano più il prato. Stiamo volando.
Volteggiamo sopra la conca del monte Farno e sopra Gandino. Attorno a noi solo aria, qualche uccello e gli altri parapendii che, prima o dopo di noi, sono decollati. Il mondo, da quassù, è tutta un’altra cosa. Più piccolo, silenzioso, più pulito e ordinato. Il verde dei prati e delle piante, le vette che ora sembrano vicinissime, le strade che si intrecciano sotto di noi, le case. Tutto vive all’insaputa di noi che, senza rumore, volteggiamo nell’aria.
Prima di spiccare il volo, mentre aspettavamo la tanto sospirata finestra di bello, Diego Servalli racconta di come riesca a conciliare lavoro e passione.
Ci racconta che da una decina di anni è uscito dal panorama delle competizioni. Nel Campionato Italiano, nei Regionali e nella Lega Piloti si è sempre ben posizionato. Quello che però ha sempre voluto però evitare è stato l’errore di scadere in quel senso di competizione estrema che, probabilmente, gli avrebbe col tempo tolto la passione per il volo. Perché, penso mentre lo ascolto, non si vola (o almeno non solo o non esclusivamente) per vincere qualcosa. Le Orobie sono le montagne che sorvola da sempre, fino a 3.300 metri di altezza.

A terra insieme a Sergio Nestola, uno dei migliori amici di Diego



“Ho iniziato a volare 25 anni fa. Il parapendio in Italia era uno sport poco conosciuto, nato più che altro come modo veloce o alternativo per scendere dalle montagne. Non c’erano corsi e le prime vele non erano certo quelle di oggi: sicure e stabili, come quelle che si fanno utilizzare ai principianti. Sono originario di Gandino e i miei primi voli sono stati proprio nella conca del Farno che, ancora, non era un campo scuola. Si saliva a piedi sul versante della montagna, insieme ad un amico più esperto, e si facevano le prove. Si andava un po’ da autodidatti e il rischio di atterrare male era altissimo. Iniziare a volare come ho fatto io è una cosa che sconsiglio vivamente, ma venticinque anni fa di scuole non ce n’erano e mettersi alla prova era l’unico modo per imparare. Con gli anni sono venuti l’esperienza, il brevetto e i corsi per diventare istruttore, di parapendio e di paramotore. La cosa splendida è che sono riuscito a trasformare la mia grande passione nella mia attività lavorativa e quindi, quando insegno, ci metto l’anima”.

Servalli, coadiuvanto anche dall’amico e compagno di volo Nestola, tiene i suoi corsi di volo nella conca del Farno, chiamata dagli allievi “il campetto”.
“Spaziosa, senza fabbricati o linee elettriche che possono costituire un grosso pericolo per chi sta imparando, protetta dalle forti correnti d’aria ed esposta al sole per l’intera giornata: è l’ideale per approcciarsi al volo. Non sono in pochi a dire che questo spazio sia uno dei campi scuola più belli del nord Italia”.
Le vele per i corsisti sono generalmente fornite dalla scuola Aero Club Monte Farno e sono adatte a chi ha esperienza ridotta e deve ancora imparare a governale. Prima di iniziare un corso viene offerto, da Servalli o da Nestola, un volo in tandem per capire la reale attitudine dell’aspirante pilota al volo. Una volta iniziato il corso sono necessari almeno una ventina di voli bassi (nel campetto) prima di prendere quota. Solo quando l’allievo sarà considerato capace di pilotare la propria vela, solo allora, gli verrà concesso di salire più in alto. Ci vogliono circa una quarantina di voli  radiopilotati dall’istruttore (che segue l’allievo a vista, dal basso) per provare a prendere il brevetto per il volo libero.
I corsi, emozionanti ma allo stesso tempo impegnativi, hanno la durata di circa un anno e si compongono di lezioni pratiche e di due mesi circa di teoria del volo. L’attrezzatura, almeno fino a metà corso, è fornita dalla scuola.

Nel frattempo, quelle nuvole che sembravano così arrabbiate, ci hanno regalato due ore di sereno , o quasi, a spasso per i cieli. L’atterraggio, che avviene in un campo del comune di Gandino, è abbastanza dolce. Merito di Nestola, il mio pilota, che mi dice quando mettere giù i piedi e cominciare a correre. E così penso che ogni volo, in fondo, iniziano e terminano con un gesto semplice come una corsa.
Riponiamo ordinatamente i parapendii perché l’ordine e la cura del materiale, in questo come in molti altri sport, sono fondamentali. Il sole sta calando ormai, e noi siamo quasi alle macchine. Viene spontaneo, però, girarsi ancora una volta a guardare il cielo, il punto di decollo e quello di atterraggio.
Tatiana Bertera


sabato 24 ottobre 2015

23/10/2015 Di corsa in Val Brembana (un po' di allenamento prima del Valtellina Wine trail)


Sono qua che me le guardo, le mie scarpe. Una, due, tre. E ancora non so bene quali utilizzerò quel giorno. 7 novembre: Valtellina Wine Trail, il grande appuntamento. Con chi? Con Marco De Gasperi, il suo ideatore, ovviamente. Con cosa? Con la mia prima gara vera, ma forse, più di ogni altra cosa, con me stessa. Per mettermi alla prova. Per vedere se ce la posso fare. So che avrei dovuto allenarmi molto di più per affrontare quei 20k di su e giù tra i vigneti dell'altra mia terra (io sono, per metà, valtellinese e sono fiera di esserlo), ma il tempo è spesso mancato. Mi sono data da fare, ma non sono riuscita ad essere costante. Mancano due settimane e conto di tornare "in forma", tempo permettendo.

Nei giorni scorsi, rubando qualche ora al lavoro, ho esplorato "di corsa" (o almeno ci ho provato) due luoghi ai quali sono affezionata. Entrambi nella selvaggia e chiusa Val Brembana.


Il primo è Passo San Marco. Una strada direte voi! Sì, una strada. Ma quella strada a me sa di inverno, perchè quando il rischio valanghe è alto, la strada chiusa che sale fino al rifugio è garanzia di sicurezza. L'ho fatta con gli sci ai piedi, con la tavola in spalla e una volta anche trascinata a terra (attaccata allo zaino) a mo' di slittino. L'ho percorsa da sola e in compagnia, l'ho fatta rotolando in discesa (perchè con la tavola ai piedi ho ancora poca grazia, come si suol dire). E poi l'ho fatta in moto: su stradali e persino a bordo di una Harley Davidson. Ho sentito quelle curve sotto alle lamine e sotto al sellino (e talvolta anche sotto il sedere!!!). Ho voluto sentirla, quella strada, anche sotto ai piedi. Partita dal parcheggio del ristorante Genzianella, sono salita fino in cima. Respirando a pieni polmoni, buttando fuori le ansie e le paure, ascoltando il silenzio tutt'intorno, calpestando la prima neve di stagione. Un'ora e venti per andare e tornare: nessuna prestazione, ma tanta felicità. La salita, quando sei abituata a correre in piano, è dura.



Il giorno successivo è stata la volta del Rif. Calvi, partendo da Carona (a dire la verità ci sono arrivata appena sotto, ma il tempo stringeva e ho girato i tacchi). Alle dieci e mezza del mattino il termometro della macchina segnava due gradi. Folle, mi sono detta, ma la voglia di mettermi alla prova era tantissima. Facendo un piccolo errore di valutazione ho avuto la brillante idea di percorrere il sentiero estivo, quasi totalmente all'ombra (vedevo dall'altra parte della vallata l'altro sentiero, l'invernale, inondato dal sole, e mi mangiavo le unghie!). Nel bosco, salendo, sembrava che la natura volesse riprendersi possesso di ciò che le appartiene da sempre, a discapito del sentiero. E quel paio di alberi caduti, riversi a terra, ne erano la prova. Su di uno, largo e imponente, mi sono sdraiata per un paio di minuti, per riprendere fiato, per sentire la corteccia fredda e morta sotto la mia schiena. In quota mi sono trovata con i piedi nella neve ed è stato a quel punto che ho ringraziato le Adidas in gore-tex, super calde ma soprattutto super impermeabili. Sbucata al sole, nella vallata bianca di neve, mi sono messa a cantare e a ridere da sola. E a quel punto, devo ammetterlo, non me ne fregava più nulla neppure di correre o di forzare il passo, perchè stavo bene e volevo prolungare quella sensazione il più possibile. Perchè in montagna tutto è più forte, più intenso: i colori, le luci, gli odori, i suoni. In montagna sento rumori che altrove neppure potrei percepire. A partire dal mio respiro, dal crepitìo dei miei passi, dalle foglie che echeggiano nella valle mentre giocano con il vento. E i colori? Un autunno caldo, da far innamorare. Credo che mai di nessuno mi potrò innamorare come di queste sensazioni che vado a ricercare, di tanto in tanto. Mentre salivo mi sono chiesta qual'è il fine ultimo della corsa. Ho sempre cercato di capirlo e a volte l'ho anche chiesto. A Marco Zanchi, ad esempio, o alla mitica Cinzia Bertasa. Perchè correte? Perchè gli ultratrail? Perchè tutta quella fatica? La mia risposta l'ho trovata. Io, quando corro, lo faccio per essere felice. La prestazione è solo una scusante per dire "vado ancora, così miglioro"...il fine ultimo, quello vero, è (credo) la felicità.





E ora? E ora è il caso che io continui ad andare. Che le mie gambe continuino a spingere, almeno per altre due settimane. E poi si vedrà. Io sono portata a pensare che "comunque vada sarà un successo", anche solo per il semplice fatto di avercela messa tutta.



domenica 11 ottobre 2015

10/10/2015 Energy Takes Over by Adidas: quando l'amore è a forma di ...scarpa


Sabato 10 ottobre 2015. Sono lì, seduta per terra, con le gambe allungate e le punte dei piedi che guardano verso l'alto. Me le contemplo per bene. Che meraviglia. E poi questo giallino che tira al verde è anche fashion. Non so resistere... mi sto innamorando. Chi l'avrebbe mai detto che un giorno avrei potuto stare lì imbambolata davanti ad un paio di scarpe da corsa? Sono ancora ai miei piedi e non le voglio togliere. Ora mi alzo di scatto, esco dal negozio e scappo! Troppo tardi... ho già lasciato il nome per fare il "test del piede"... No way! Devo aspettare di acquistarle.

Sono a Koala Sport e ho appena corso per le vie della città (5k circa, nulla di impegnativo) insieme a Danilo Goffi, Ambassador Adidas e maratoneta nono classificato ai giochi olimpici di Atlanta nel 1996. L'evento è stato organizzato da Adidas in collaborazione con Koala e prevede una corsa insieme a Danilo (utilizzando calzature con tecnologia Boost) e, prima oppure dopo la run, il test gratuito del piede. Conoscere Danilo, per una che corre veramente da poco e che sta scoprendo un mondo tutto nuovo, è emozionante. Come ho già avuto modo di constatare più volte grazie al mio lavoro, Danilo appartiene a quella categoria di "grandi atleti" che, proprio in quanto grandi, non hanno bisogno di darsi delle arie per far notare agli altri il loro valore. Appena entra in negozio saluta in maniera calorosa titolare, commessi e il team di ragazzi Adidas, perchè qui, il plurimedagliato Goffi, è uno di casa.
Nel giro di un'oretta arrivano a Koala una trentina di persone. Di tutte le età. Già in tenuta da corsa. Non so bene cosa mi aspetti ma credo di essere abbastanza allenata dal momento che da un paio di mesi esco a correre con una certa regolarità, in preparazione al Valtellina Wine Trail che si terrà il 7 novembre e al quale ho promesso di partecipare (non si può certo venire meno ad una promessa fatta al mitico Marco De Gasperi!).

Immancabile selfie con Goffi
Alcuni dei runner che hanno partecipato all'iniziativa
Finalmente si corre!
Ci siamo. Una foto di rito davanti al negozio e si parte. Goffi fa da capogruppo, per i primi cinque minuti. Poi inizia a spostarsi, sempre correndo, da un componente all'altro del gruppo, per conoscere, chiacchierare di corsa, di scarpe, di gare... di tutto un po'. Io sono in testa (posizione privilegiata per scattare foto!) e comincio a chiacchierare con il tizio che si trova alla mia sinistra. Non corre da molto ed è entusiasta della disciplina. "Corro perchè mi fa sta bene... Sai che da che ho iniziato ho perso 14 chili?... Ero più grosso io". Parlando la fatica passa in secondo piano. Mi accorgo che tutti se la stanno chiacchierando, tra loro o con Danilo. Non so se per l'emozione, se per la chiacchierata, se per le scarpe, ma a me oggi sembra di volare. Mezz'oretta passa velocemente e siamo di nuovo tutti al negozio, pronti per il test del piede. La teoria di Adidas, almeno per quanto riguarda il running, è quella di consigliare la scarpa in base al corridore e alle caratteristiche morfologiche del piede, eliminando totalmente le categorie A1, A2 e A3. Una volta scalzate le scarpe si cammina a turno su un tappetino che registra i dati relativi all'appoggio dei due piedi. Poi veniamo fatti correre su un tapis roulant. In base alla forma del piede, alla modalità di appoggio e alla distribuzione del peso corporeo, ci viene consigliata una scarpa piuttosto che un'altra.

Lo studio del piede
I risultati del test vengono stampati e consegnati ai runner

Il mio piede sembra non avere particolari problemi e le scarpe che ho utilizzato per correre oggi sono perfette. A me è sembrato di volare.
E niente, che fare? Sarebbe ora di andarsene ma me ne sto qua ancora per un po', seduta, e continuo a rimirarmi i piedi.

Il prossimo appuntamento per correre con Goffi sarà sabato 14 novembre, a partire dalle ore 10.

Ho corso con le nuove Adidas Ultra Boost: la naturale evoluzione delle Energy Boost (che erano le mie "vecchie" scarpe e con le quali già mi trovavo bene), ridisegnate dai lacci al battistrada. Non c’è un solo dettaglio, dice l'azienda, che non abbia subito una revisione totale e più spesso un ridisegno completo, come la tomaia, il tallone e l’introduzione del sistema TORSION SYSTEM a doppia densità nello spessore dell’intersuola. Tanta roba.