Questo è Diego. Diego Servalli. In Val Seriana era una specie di mito. Quello che faceva atterrare ogni anno la slitta di Babbo Natale col parapendio, tanto per intenderci. Dico "era", dico "faceva", perchè Diego non c'è più. E' morto il 5 giugno, in un incidente, e neanche per colpa sua. Qualche giorno fa, parlando con un amico, mi è tornato alla mente, questo ragazzone sempre abbronzato. Lui, il suo parapendio, il suo amore per il volo. Lui, che quando gli avevo chiesto di scrivere un articolo mi aveva portata a volare. In due, dapprima. E poi si era fidato a darmi in mano una vela e a farmi provare, da sola, nel campetto sul Farno. Qualche metro coi piedi nel vuoto... elettrizzante! "Perchè se non provi a pilotarlo, non puoi capire e non puoi scrivere, aveva detto!". E io, che folle lo sono al punto giusto, gli avevo subito risposto "Ok, come si guida sto coso che mi lancio!?".
Come dicevo, qualche giorno fa ho ripronunciato il suo nome, e mi sono scesi i brividi lungo la schiena. Quest'anno chi farà atterrare la slitta di Babbo Natale?...
C'è un articolo però, che avevo scritto per Orobie e che non andrà mai in stampa. E' rimasto qui, su un file, ed è rimasto invariato, proprio come se Diego fosse ancora vivo. Lui, in fondo, è ancora qui, se abbiamo la voglia di ricordarlo. Mi piacerebbe condividere questo scritto con le perone che lo hanno amato. Buona lettura.
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Diego Servalli |
Il furgone bianco corre
lungo la strada che conduce al Farno. Quando finisce l’asfalto l’andatura non
rallenta e sullo sterrato, tra una buca ed un saltone, Diego guarda il cielo con aria interrogativa.
Glielo chiede ad alta voce, al cielo. “Allora? Cosa vogliamo fare oggi? Ci
lasci il tempo per una planata o che cosa?”. Diego sorride, probabilmente per non tradire quella
preoccupazione che, non ci può fare nulla, gli traspare dagli occhi. Mi sfiora
il braccio con la stessa mano con la quale,
una volta sicuro della mia attenzione, indica le nubi che crescono come
panna montata davanti ai nostri occhi. Bianche, grigie, giallastre. Da qualcuna
filtra ancora qualche sparuto raggio di sole che sembra aver perso la strada.
“Le vedi? Quelle fino a mezz’ora fa non c’erano. Guarda ora invece. Davanti a
te, dei cumulonembi, ma si stanno dissolvendo. Quelle sono stratificate, non
sono pericolose. Quelle là nere invece, guarda verso Valcava, quelle sono acqua
a secchiate. Guarda quanta ne sta venendo giù. Ora ci fermiamo qua e vediamo
cosa fanno”.
Parcheggia su un
tornante ed esce dall’abitacolo, si stiracchia, accende una sigaretta e si
appoggia ad un muretto, senza distogliere lo sguardo dal nemico. Uno alla volta
i passeggeri, me compresa, trovano il loro posticino in mezzo alla strada, chi
in contemplazione del cielo, chi dell’app scaricata sul telefono cellulare e
che funge da radar meteo, con tanto di lucine colorate, grafici e nuvolette che
si muovono in tempo reale. L’occhio umano e l’esperienza che si scontrano con
la tecnologia, anche se a vincere alla fine sono sempre loro, le nuvole, perché fanno come gli pare.
Siamo tutti qua, con il
naso all’insù, nella trepidante attesa di vedere aprirsi in cielo un buco di
sereno.
Cik, ciak. Gocce grandi
come noci iniziano a schiantarsi a terra e in men che non si dica ci fiondiamo
tutti sul furgone che, ora lo guardo bene, non è bianco, ne’ fuori ne’ dentro.
Tende più che altro al marroncino.
Ed ecco che quello che
doveva essere un tranquillo lancio con il parapendio si trasforma in un’impresa
alla mission impossibile. Quello che non voglio rischiare è di ritrovarmi a
fare un atterraggio di emergenza, tra fulmini e saette, o peggio di finire come una gallina arrosto.
Ma Diego Servalli e Sergio Nestola sono degli esperti e hanno già intuito che
passate quelle che loro definiscono quattro gocce tornerà il sereno, per lo
meno sopra la conca del Monte Farno, ai piedi del Pizzo Formico.
Il sole non tarda a
farsi largo tra le nuvole e noi ci stiamo già preparando a spiccare il volo.
Prima però c’è tutta la
fase di “vestizione” e preparazione: caschetto e antivento in primis, perché
lassù l’aria non manca. E anche un paio di guanti leggeri. Poi si distende la
vela a terra e si controllano i tiranti. Diego fa le prove per accertarsi che
il ponte radio, per rimanere sempre in contatto con gli altri piloti che sono
in volo ma anche con chi si trova a terra, funzioni a dovere. C’è anche
un’apposita strumentazione che rileva le termiche.
Solo in volo mi renderò
veramente conto dell’importanza di questo aggeggio che, con il suo bip bip
cadenzato, indica al pilota quando il parapendio incontra una corrente di aria
calda ascensionale, la termica appunto, che permetterà alla vela di andare
verso l’alto. Immagino le termiche come degli “ascensori gratuiti” che, se ben
sfruttate, portano la vela sempre più in alto.
Imbragata, il cuore
batte a mille. Nel volo in tandem il pilota (quello veramente capace di volare,
che nel mio caso è Sergio, sta appeso dietro di me, che mi limito a fare il passeggero).
Il decollo, così come
l’atterraggio, sono le due fasi in cui anche il passeggero deve collaborare
attivamente.
Siamo in piedi sul
pendio. Sergio ascolta il vento, pronto a darmi il segnale di via. Non appena
si alza una leggera brezza mi dice”Forza ora corri più veloce che puoi lungo il
pendio, spingi sulle gambe, con tutto il peso del busto proteso in avanti”. Io
eseguo e corro con tutte le mie forze. All’inizio sembra di lanciarsi a
capofitto verso il basso, poi uno strattone all’indietro e lui che mi dice di
continuare a correre. La vela si è alzata perpendicolare sopra le nostre teste
e fa resistenza. Ancora qualche passo e senza che me ne accorga i piedi non
toccano più il prato. Stiamo volando.
Volteggiamo sopra la
conca del monte Farno e sopra Gandino. Attorno a noi solo aria, qualche uccello
e gli altri parapendii che, prima o dopo di noi, sono decollati. Il mondo, da
quassù, è tutta un’altra cosa. Più piccolo, silenzioso, più pulito e ordinato.
Il verde dei prati e delle piante, le vette che ora sembrano vicinissime, le
strade che si intrecciano sotto di noi, le case. Tutto vive all’insaputa di noi
che, senza rumore, volteggiamo nell’aria.
Prima di spiccare il volo,
mentre aspettavamo la tanto sospirata finestra di bello, Diego Servalli racconta
di come riesca a conciliare lavoro e passione.
Ci racconta che da una
decina di anni è uscito dal panorama delle competizioni. Nel Campionato
Italiano, nei Regionali e nella Lega Piloti si è sempre ben posizionato. Quello
che però ha sempre voluto però evitare è stato l’errore di scadere in quel
senso di competizione estrema che, probabilmente, gli avrebbe col tempo tolto
la passione per il volo. Perché, penso mentre lo ascolto, non si vola (o almeno
non solo o non esclusivamente) per vincere qualcosa. Le Orobie sono le montagne
che sorvola da sempre, fino a 3.300 metri di altezza.
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A terra insieme a Sergio Nestola, uno dei migliori amici di Diego |
“Ho iniziato a volare 25
anni fa. Il parapendio in Italia era uno sport poco conosciuto, nato più che
altro come modo veloce o alternativo per scendere dalle montagne. Non c’erano
corsi e le prime vele non erano certo quelle di oggi: sicure e stabili, come
quelle che si fanno utilizzare ai principianti. Sono originario di Gandino e i miei
primi voli sono stati proprio nella conca del Farno che, ancora, non era un
campo scuola. Si saliva a piedi sul versante della montagna, insieme ad un
amico più esperto, e si facevano le prove. Si andava un po’ da autodidatti e il
rischio di atterrare male era altissimo. Iniziare a volare come ho fatto io è
una cosa che sconsiglio vivamente, ma venticinque anni fa di scuole non ce
n’erano e mettersi alla prova era l’unico modo per imparare. Con gli anni sono
venuti l’esperienza, il brevetto e i corsi per diventare istruttore, di
parapendio e di paramotore. La cosa splendida è che sono riuscito a trasformare
la mia grande passione nella mia attività lavorativa e quindi, quando insegno,
ci metto l’anima”.
Servalli, coadiuvanto
anche dall’amico e compagno di volo Nestola, tiene i suoi corsi di volo nella
conca del Farno, chiamata dagli allievi “il campetto”.
“Spaziosa, senza
fabbricati o linee elettriche che possono costituire un grosso pericolo per chi
sta imparando, protetta dalle forti correnti d’aria ed esposta al sole per
l’intera giornata: è l’ideale per approcciarsi al volo. Non sono in pochi a
dire che questo spazio sia uno dei campi scuola più belli del nord Italia”.
Le vele per i corsisti
sono generalmente fornite dalla scuola Aero Club Monte Farno e sono adatte a
chi ha esperienza ridotta e deve ancora imparare a governale. Prima di iniziare
un corso viene offerto, da Servalli o da Nestola, un volo in tandem per capire
la reale attitudine dell’aspirante pilota al volo. Una volta iniziato il corso
sono necessari almeno una ventina di voli bassi (nel campetto) prima di
prendere quota. Solo quando l’allievo sarà considerato capace di pilotare la
propria vela, solo allora, gli verrà concesso di salire più in alto. Ci
vogliono circa una quarantina di voli
radiopilotati dall’istruttore (che segue l’allievo a vista, dal basso)
per provare a prendere il brevetto per il volo libero.
I corsi, emozionanti ma
allo stesso tempo impegnativi, hanno la durata di circa un anno e si compongono
di lezioni pratiche e di due mesi circa di teoria del volo. L’attrezzatura,
almeno fino a metà corso, è fornita dalla scuola.
Nel frattempo, quelle
nuvole che sembravano così arrabbiate, ci hanno regalato due ore di sereno , o
quasi, a spasso per i cieli. L’atterraggio, che avviene in un campo del comune
di Gandino, è abbastanza dolce. Merito di Nestola, il mio pilota, che mi dice
quando mettere giù i piedi e cominciare a correre. E così penso che ogni volo,
in fondo, iniziano e terminano con un gesto semplice come una corsa.
Riponiamo ordinatamente
i parapendii perché l’ordine e la cura del materiale, in questo come in molti
altri sport, sono fondamentali. Il sole sta calando ormai, e noi siamo quasi
alle macchine. Viene spontaneo, però, girarsi ancora una volta a guardare il
cielo, il punto di decollo e quello di atterraggio.
Tatiana Bertera