martedì 28 aprile 2015

28/04/2015 Mezzegra: in falesia con il chiodatore (e scultore) Domenico Dodo Soldarini

Questo racconto, in parte pubblicato sulla rivista Orobie di Aprile 2015, mi ha preso il cuore. Conoscere Dodo, e poi scriverlo, mi è piaciuto moltissimo. Grazie!
 

«Dodo» apre il baule in legno. Il coperchio sembra pesante e seguo con lo sguardo il movimento delle sue mani, le cui tracce di magnesite tradiscono il recente contatto con la roccia. I muscoli dell’avambraccio si tendono leggermente sotto il peso. Continuo a osservare le sue mani, mentre si tuffano nel buio e ne tirano fuori un blocco di pietra. È una conchiglia. Sembra un fossile. Le spirali si inseguono l’un l’altra, formando un vortice, e l’alternanza tra lucido e opaco fa venire una gran voglia di toccarla, come fanno i bambini, per sentire come è al tatto. Appoggia la conchiglia sul tavolo. Poi un pesce. Sempre in pietra. Dei vasi. Una scultura astratta il cui profilo potrebbe essere un delfino. Un piccolo totem, che termina con il volto di un indiano e, sotto, un’incisione che somiglia a una farfalla. La osserva e si ferma un attimo, in piedi, di fianco al tavolo ormai carico di pietra lavorata e illuminato dall’ultimo sole della giornata. «Questo è uno dei primissimi – dice indicando l’indiano – e quello sotto, simile a una farfalla, è il simbolo della Tribù». Non fa riferimento a nessun gruppo di indigeni, a nessuna etnia o cultura. La Tribù è il gruppo di chiodatori indipendenti (provenienti da diverse zone del nord Italia) di cui Dodo ha fatto parte e che negli anni Novanta ha chiodato e liberato diverse vie multipitch e falesie sulle sponde dell’Alto Lario, ma anche in Val Masino, in Dolomiti e in Verdon.

 
Lui, Dodo, è Domenico Soldarini, 48 anni, nato a Como e cresciuto in Val d’Intelvi, ora residente a Santa Maria Rezzonico. Perché Dodo? Perché tutti, fin da bambino, lo hanno sempre chiamato così. Professione odontotecnico, è uno scalatore d’alto livello e da una decina d’anni si dedica anche a dare forma alla pietra. Sotto le sue mani la roccia prende vita. Come se in quegli spigoli smussati, in quelle onde e nella lavorazione delle superfici, imprimesse tutte le emozioni vissute in parete.

Sulla falesia di Mezzegra, ad esempio: è qui, su questo fascione di roccia grigio-gialla, che mi accompagna oggi. Saliamo superando l’omonimo Comune comasco, un insediamento di 952 anime, le cui prime testimonianze risalgono al 1409. Nel Medioevo dipendeva dalla potente Pieve dell’Isola Comacina, alleata di Milano. Dopo la distruzione della Comacina (nel 1169) il borgo seguì le sorti dei paesi limitrofi, soffrendo le devastazioni inflitte dai soldati e dai mercenari, in guerra per la successione al Ducato di Milano. Lo stesso destino di molte altre comunità. O almeno così è stato fino alla Seconda guerra mondiale. Proprio mentre il conflitto volgeva al termine il nome dell’abitato si legò per sempre alla fucilazione del Duce. Un evento che qualche anziano in paese ricorda ancora, oltre che per averlo letto sui libri di storia, per averlo vissuto.


L’accesso alla falesia è comodo, ben tracciato e richiede una mezz’oretta di cammino. Dopo aver lasciato l’auto al parcheggio della chiesa, con zaini e attrezzatura in spalla, imbocchiamo la strada acciottolata che, costeggiando il cimitero, prosegue in salita per poche centinaia di metri, prima di diventare più stretta e ripida. Dopo una serie di gradini prendiamo una traccia sulla destra, che attraversa un pratone coltivato a ulivi e continuiamo a salire, verso la falesia. Essendo esposta a est prende il sole fin dal primo mattino ed è frequentata generalmente nelle mezze stagioni e nei mesi invernali. Dodo sembra voglioso di mostrarmi quella che lui sente un po’ come una delle «sue falesie». Chiodata negli anni Novanta dai monzesi Fabrizio Moroni e Claudio Pagani, questa fascia di roccia andò in un primo momento in disuso per via dell’avvicinamento  e della chiodatura a volte un po’ distante. Prima di arrivare sotto la parete principale, verticale e a tratti leggermente strapiombante, ci imbattiamo nella Grotta. Un settore molto strapiombante, con tiri tecnici e di continuità, e gradi che vanno dal 7a all’8c.
«Mi dispiaceva che un sito così bello, con roccia ottima e in un luogo tanto selvaggio, non venisse giustamente valorizzato», racconta Dodo mentre, impugnando un falcetto e con la maglietta pittorescamente avvolta sulla testa a mo’ di bandana, ripulisce il tracciato e si fa strada tra i rovi che, in estate, cercano di inghiottirsi il sentiero. «Nel 2000 ho pertanto deciso di mettere mano anche a questa falesia, sostituendo spit, facendo un parziale lavoro di richiodatura, aprendo nuovi itinerari e qualche variante di quelli già esistenti».
Nel frattempo, senza troppa fatica, arriviamo fin sotto la falesia. Mentre appoggiamo gli zaini, prepariamo corde, rinvii e moschettoni, ci godiamo il panorama del lago sotto di noi e del Legnone di fronte.
Non un filo di vento a increspare le acque, uno specchio argentato dalla leggera foschia che, presto, dovrebbe lasciare spazio a un bel cielo terso. Dodo indica la fascia di roccia che incombe sopra le nostre teste: un lungo muro a tacche, intervallato da brevi tetti e da spettacolari «canne» che salgono sul giallo. Il sentiero arriva circa a un terzo della parete, che per comodità è stata suddivisa in due settori: rispettivamente sinistro e destro, in relazione al sentiero. È qui che Domenico comincia a raccontare della passione per la scultura, alternandola ai ricordi sulle giornate trascorse in falesia con la tribù, a scalare e a chiodare. Come se, in fondo, per lui scalare e scolpire fossero la stessa cosa. Perché anche le vie sono, in un certo senso, opere d’arte. Chi chioda dà vita a qualcosa di nuovo, individuando la linea da salire all’interno di un mare di roccia.


Saliamo verso destra, dove i tiri sono più corti ma più intensi e dove Dodo decide di “riscaldarsi”. Qua le partenze, fisiche e leggermente strapiombanti, sono seguite da muri verticali o appoggiati, decisamente più tecnici. A sinistra, invece, prevalgono i tiri più lunghi e di resistenza. Proprio in quest’ultima parte Dodo ci convince a provare Mistral (grado 6c+). Venticinque metri di continuità e resistenza, considerato uno dei tiri più estetici non solo di Mezzegra ma dell’intera area. La chiodatura, sicura ma non ravvicinata, rende i passi-chiave obbligati. Mistral è un tiro estremamente logico perché, dopo una partenza su tacche tecniche e movimenti di equilibrio, si sviluppa lungo una sequenza di canne e concrezioni presenti solo in questo tratto dell’intera falesia. Questa parte centrale è meno di equilibro e più fisica, con movimenti di allungo su prese quasi sempre buone e passi di aderenza. Gli ultimi metri salgono un muro verticale, a tacche nette e gocce, e permette allo scalatore di tirare un respiro di sollievo ma non certo di rilassarsi.
A Mistral seguono altri tiri, fino al calar del sole, ma Dodo aveva ragione: Mistral rimane nel cuore e, se vissuto con il giusto spirito, permette di capire appieno la stretta relazione tra scalata e arte.


Dopo qualche salita, eccoci di nuovo nell’abitazione di Dodo a Santa Maria Rezzonico. Faccia a faccia con la sua vene artistica fatta di conchiglie, indiani, vasi, pesci. A tratti levigata, piuttosto che lucidata o bocciardata, l’arte di Domenico Soldarini è passata da una prima fase principalmente figurativa ed una seconda, più astratta. «L’idea di dare forma alla materia, di plasmare, mi è sempre piaciuta. Con la scultura ho iniziato da autodidatta. A volte le cose succedono così, per caso. Vedi dei sassi la cui forma ti ricorda qualcosa, li porti a casa e poi decidi di comprare un flessibile e di cercare di realizzare quell’immagine che hai in testa. La roccia di Mezzegra non può essere lavorata con scalpello e martello, come invece accade con il marmo. È dura e fragile, e per lavorarla si utilizzano dischi diamantati. A volte vado da un amico (scultore) che mi dà delle dritte su come scolpire, sulle forme, sui pezzi che possono avere, a suo parere, un valore anche in termini economici. Nella scultura, pur libera che sia, esiste tutta una serie di regole riguardanti forme, volumi e linee che vanno rispettate se si vuole che la propria opera sia priva di imperfezioni. È un percorso in continua evoluzione». L’opera perfetta? «Credo non esista. Esattamente come non esiste la via di roccia perfetta. C’è sempre spazio per il miglioramento e anche quello che in un primo momento sembra privo di difetti, col tempo, non si rivela tale». Alla ricerca della perfezione, si direbbe, e il luogo in cui Dodo vive e produce le sue sculture, che sembra un angolo di paradiso sfuggito per caso al Creatore e dimenticato in Terra, di certo non può che ispirare la sua arte. Insieme alle sculture, ordinatamente sistemate in un raccoglitore ad anelli, ecco comparire anche relazioni di vie e falesie (tra queste anche quella di Mezzegra) tutte disegnate e scritte rigorosamente a mano.

giovedì 23 aprile 2015

22/04/2015 Mauro Corona: racconto semiserio di un uomo solo apparentemente semiserio


Questo racconto non sarà, volutamente, serio. Non potrebbe mai esserlo, perchè fa ridere. Come l'ho incontrato, le prime impressioni, i miei stati d'animo... tutto fa ridere. Per questo sarà un racconto volutamente semiserio.
Il tentativo, però, è quello di descrivere un uomo che, sebbene cerchi di apparire semiserio, è invece serissimo, per lo meno nei concetti che trasmette durante le sue serate. Non credo sia finzione, non credo reciti. Credo piuttosto che lui sia proprio così: carismatico, brillante sul palco, capace di spiazzarti sputandoti in faccia verità talmente ovvie che il nostro "dare per scontato" è diventato incapace di vedere. E lui invece le mette in luce queste verità. Erano lì, sotto il nostro naso, ma non le vedevamo. E fa bene all'animo, perchè strappando un sorriso, aiuta a riflettere.

Che non sappiamo osservare. Che i nostri bambini giocano con le dita e hanno disimparato a giocare con le mani. Che amare significa non chiedere. Che la fedeltà a volte (o spesso?) può far male. Che la verità va perseguita, ma che ci sono segreti che è bene che rimangano tali. Che chi viòla un segreto poi spezza la magia e ne rimane inevitabilmente deluso. Che nella vita ci sarà sempre chi tenterà di tagliarci le ali. Che Dio sta ovunque, se sappiamo vederlo. Che nei boschi dovrebbero esserci dei caratelli che invitino a non fare troppo baccano. Che la natura una volta parlava e l'uomo la ascoltava. Che ora, in alcuni luoghi, ha smesso di parlare e, anche laddove parla, i più non la sentono. Che si mangia bene ovunque, soprattutto se sei a digiuno da una settimana. Che il momento del riscatto non è più tanto lontano e la montagna tornerà a ridere. Che....



"E tu chi sei? Ma io non so, non so neanche perchè ti hanno esposta a questo pericolo. Poverina...!". E mi guarda con i suoi occhi scuri Mauro, da sotto i capelli pepe che gli lambiscono la fronte. E non so se avere paura o se scoppiare a ridere. Bell'inizio! Ho sfoderato uno dei miei migliori sorrisi, ma non è servito a nulla. Questo non me lo conquisto con un sorriso. Se poi facessi la smorfiosa, sono certa, gli starei ancora più sulle palle. Chi sono?... Eh sono quella che deve salire sul palco insieme a te, la "moderatrice", così sta scritto sul biglietto. Sono quella che vorrebbe fare una briciola di scaletta e capire di cosa parlare sul palco del Donizetti. Invece tu mi dici che si va a braccio e che le scalette non esistono. Povera Tatiana, prigioniera di quello stereotipo secondo il quale se ti prepari bene, se fai i compiti e ripeti la lezione, allora tutto andrà bene. Sono qua da mezz'ora, il cuore mi batte a mille e non ho la minima idea di cosa accadrà tra due ore su quel palco. Una fottuta paura mi blocca il fiato e cerco qualcosa da dire, e magari anche qualcosa di intelligente, ma davvero non mi viene nulla. Allora penso che è meglio restare in silenzio ed ascoltare. Penserà che io sia stupida? Beh, che lo pensi pure... ho la lingua intrecciata su se stessa. Vorrei che mi uscisse roba tipo una citazione colta, invece sono muta.

Mauro parla di tutto, seduto al tavolino del bar, tranne che della serata che lo (o meglio ci) aspetta. Parla della sua baita, del viaggio verso Bergamo, della sua vita... Parla anche delle donne. Di donne fatte strane, rapite dalla gelosia, prigioniere dei sentimenti. Io ascolto e mi chiedo se sia lui che le donne non le capisce, o se siano le donne a non capire lui. Ma lui è coerente, quello che dice (giusto o sbagliato che sia) non fa una piega e concludo che probabilmente sono le donne a non capire lui.

Lui non lo incanti, non lo incastri, non più. Si è fatto la scorza pare, anche nei confronti delle donne. Non che non gli piacciano: gli piacciono, eccome, ma preferisce non ubriacarsene. E' l'età oppure è sempre stato di questo avviso? Chissà...

"Che hai da guardarmi?"... Mi incalza con un'altra domanda così, a bruciapelo, ma ora sotto la barba ha un leggero ghigno. Forse non gli sto tanto sulle palle. Forse.

"Mauro, io però ho paura ora". Credo che gli occhi mi si facciano grandi grandi nel dirlo. Lui mi guarda, accenna un mezzo sorrisetto, quello di chi ha già capito tutto. Ma cavolo come fa a non capirlo? E' comprensibile la mia agitazione: non so di cosa vuole parlare sul palco, non so nulla e non me lo dice.
Sono le nove meno cinque, il teatro è sold out, lo spettacolo inizia tra 5 minuti e noi siamo seduti al bar come se niente fosse! Mille pensieri mi passano per la testa ma lui li interrompe di colpo.
"A che ti serve agitarti? Andiamo, saliamo sul palco e ci proviamo. E vediamo come va. Come tutto nella vita, si prova e poi si vede come va!". Di colpo ha dato un calcio a tutte le mie paranoie, come direbbe lui le ha prese a calci in culo, e loro se ne sono andate, sdolorando.

"Va bene, io ci sono, andiamo e proviamo, però ti toccherà fare da capocordata...". Sorride.



Dieci minuti dopo su quel palco ci siamo saliti. Per fortuna con quella frase aveva spazzato via ogni paura. E' stato un buon capocordata, quella sera, attento e premuroso. Mi ha tenuta tirata quando serviva e mi ha lasciato quel poco di lasco che serve per imparare a volare.



Sul palco, spettatrice del suo show improvvisato (come nel suo stile) eppur logicissimo. Tutto torna, tutto scorre, Panta rei.
Io, calamitata da lui, come il pubblico, ne sono uscita con una gran voglia di imparare , ascoltare, sperimentare. Perchè c'è così tanto da imparare.

Grazie Mauro e alla prossima!


lunedì 13 aprile 2015

Quattro passi a fil di cielo con... Armin Holzer e Alessandro D'Emilia

 
Dopo aver trovato il giusto e meritato spazio su Gazzetta dello Sport Gold, ecco l'intervista rilasciatami da Armin Holzer, nella quale ci parla anche del mitico meeting di Misurina.
Le foto sono tutte state fornite da Holzer che, tra una sciata e un lancio col parapendio, riesce a trovare anche il tempo per rispondere alle mie domande.
 


Quando e come nasce questa disciplina?

“Lo slacklining nasce nella Yosemite Valley (California) nei primi anni 80, dove si sviluppa specialmente nell'ambiente dell’ arrampicata. Nel 1985 Scott Balcom fu il primo a camminare su un’highline sul Lost Arrow Spire (Yosemite Valley). Questa forma di “giocare con la slack” é poi stata portata dagli scalatori in Europa. Nonostante sia uno sport estremo questa disciplina é sicura, basti pensare che negli ultimi 30 anni è morta una sola persona, a causa di una serie di errori tecnici nel montaggio della highline. Negli ultimi tempi si pratica anche nei parchi cittadini, ed è considerata al contempo un gioco, uno sport e una forma di allenamento per atleti di varie discipline: camminare lungo una fettuccia di queste minute dimensioni sviluppa le doti più primitive dell' equilibrio, aumentando la percezione e il rapporto tra corpo,mente e natura”
 
Come vi siete conosciuti?

Entrambi maestri di sci, ci siamo conosciuti ad una gara di freeride, cinque anni fa. In estate ci siamo rivisti al Rifugio Lavaredo (Armin tornava dal montaggio di una highline nei pressi del Monte Paterno e Alessandro dalla salita allo Spigolo Giallo sulla Cima Piccola di Lavaredo insieme ad un amico). Dopo una tranquilla chiacchierata ci siamo accordati per fare un po’ di slackline insieme. Passo dopo passo abbiamo imparato ad avere sempre più confidenza con la slack. Dalla passione comune per questa disciplina è nata anche la nostra grande amicizia. Da allora, insieme, abbiamo attrezzato e percorso più di 70 highline, compiendo traversate da record mai effettuate prima come sulle Tre Cime di Lavaredo, sulla Marmolada, alle torri del Vajolet e in Cina, dove abbiamo stabilito il nostro record personale di camminata a 5000m di quota.
 

Come nasce il raduno a Monte Piana, sopra Misurina?

Nasce semplicemente dalla nostra amicizia e dalla voglia di trasmettere anche agli altri la nostra stessa passione: per questo sport, ma soprattutto per la montagna. Il Monte Piana, oltre che ad essere un luogo ideale per fare highline, è anche una specie di museo all’aperto, in quanto è stato uno dei più sanguinosi teatri della prima guerra mondiale. Per noi, consapevoli della valenza storica e culturale del posto, rappresenta un luogo di unione e di confronto. Importantissimo per la realizzazione del meeting è il supporto dell'associazione sportiva "Le Lepri di Misurina"e del comune di Auronzo di Cadore.
 

Chi sono “Le lepri di Misurina”?

Le Lepri sono, anzi siamo: Alessandro d’Emilia, Niccolò Zarattini, Aldo Valmassoi, Nicolò Cadorin, me e tanti altri. Siamo un gruppo di ragazzi che condividono la passione per la slackline, lo sci e l’arrampicata. Viviamo queste discipline in maniera non competitiva, in un ambiente mozzafiato come le Dolomiti.
 

Tralasciando quindi la competizione, cosa è per voi l’highline?

Non sport estremo, non una cosa da fare da soli,  ma una forma creativa di socialità. La slackline non è una semplice fettuccia: a noi piace considerarla un ponte tra culture. Nel meeting infatti centinaia di atleti da tutto il mondo condividono la loro passione, naturalmente, ma anche momenti di vita insieme, esperienze, emozioni.

Per noi fare highline è cercare armonia nel movimento, fra mente, corpo e natura, fra essere e non-essere, è continuare a camminare trasformando la paura di cadere in rispetto e positività. La sensazione che provi quando cammini sull’highline, anche se sei da solo, è quella di condividere l’esperienza con tutti gli amici che ti guardano e ti incoraggiano. E’ un ponte tra culture e mentalità diverse: aiuta a incontrare persone nuove e a costruire amicizie. Spesso è proprio la paura del non-essere, ovvero di cadere, ad impedire di trovare l’armonia giusta per poter camminare in tranquillità. Non è da considerarsi una sfida contro se stessi ma con se stessi, un percorso soggettivo allo scopo di conoscersi nel profondo.

venerdì 3 aprile 2015

Il Tour intorno al Gran Combins (Valle d'Aosta)


Lo scorso anno ad agosto, insieme a Klaus, ho fatto un trekking molto carino e poco conosciuto. Il risultato del nostro giringiro è stato un articolo su La Stampa di Torino (scritto da Enrico Martinet), un resoconto dettagliato del trek (di seguito e sul sito del tour) e alcune belle foto di Klaus (con le quali è stata realizzata una mostra itinerante).


SE AVETE QUATTRO/CINQUE GIORNI E NON SAPETE CHE FARE...PERSONALMENTE LO CONSIGLIO.

Il Tour des Combins esiste dal 1996 ed è il risultato di una trentina d’anni di studi. Nel corso dei decenni è andato incontro a diverse modifiche, diventando via via sempre più interessante, soprattutto dal punto di vista naturalistico. Nulla di impossibile, ma richiede gambe allenate e capacità di adattamento a tutte le condizioni atmosferiche: nello zaino bisogna avere dalla protezione solare ai guanti, per non congelarsi le mani in caso di pioggia (che può diventare neve anche nel mese di agosto in prossimità dei passi alpini). Normalmente si articola in sei tappe, partendo da Saint-Rhémy-en-Bosses o da Bourg-Saint-Pierre e percorrendolo in senso orario.

 

L’idea di stravolgerlo è venuta come la cosa più naturale del mondo. Apri la cartina, la guardi e dal dire al fare ci passa davvero poco. Pur mantenendosi sullo stesso tracciato, il “Tour al contrario” parte dall’Italia (da By, da Glacier o da Ollomont in Valpelline) e richiede un impegno complessivo di 5 giorni. La domanda è : perché?

Perché è più comodo per chi proviene, come me, da regioni limitrofe alla Valle d’Aosta. Perché richiede un giorno in meno rispetto a quello “in senso orario”, perché è insensato precludere la possibilità di percorrerlo in un senso piuttosto che nell’altro e infine perché a volte è bello fare anche qualcosa di diverso!

 
15/08/2014 - Tappa 1 - da By ( 2.048 m, Valpelline) alla Cabane de Chanrion (2.462 m)

Partenza ore 10,30 - arrivo ore 16,15

 

 La prima tappa, salendo dalla Valpelline, è una passeggiata che funge da riscaldamento per quella, molto più lunga, del giorno successivo.

I prati verdi e ricchissimi di fiori lasciano presto il posto ai ghiaioni che portano al Col Fenetre de Durand (2.797 m). Appena sotto il colle l’occhio del ghiacciaio (caratteristica conformazione che somiglia, appunto, ad un occhio) osserva attento il viandante che salendo si dirige verso il confine con la Svizzera, luogo di rilevanza storica e culturale in cui si ricorda, attraverso una targa, il faticoso e sofferto passaggio di Luigi Einaudi dall’Italia verso il Vallese mentre “traeva esule in terra elvetica  la sua dignità di uomo e di scienziato valicando nella tormenta questo colle il 23 settembre 1943”.

 

Sempre in cima, sulla destra, il Glacier de Fenetre mostra i suoi caratteristici tagli verticali, che lo rendono simile ad una tela di Fontana.

Scendendo si passa attraverso un lungo residuo morenico che, a differenza di tanti altri visti in precedenza, sembra più che altro una terra devastata dai bombardamenti: a farla da padrona sono ora massi giganteschi, crateri e detriti di diverse dimensioni.

Il sentiero (in Italia segnato dal rombo giallo TDC e in Svizzera da quello rosso-bianco-rosso) porta attraverso prati e distese di fiori fino al fondo valle (circa 2.200 m) dove, dopo aver attraversato il fiume, risale verso il rifugio.

 

16/08/2014 - Tappa 2 – dalla Cabane de Chanrion (2.462 m) alla Cabane Brunet (2.103 m)

Partenza ore 7.00 - arrivo ore 18,45 Attenzione: d’ora in avanti è bene avere con sé una cartina dal momento che, a volte, è facile imboccare sentieri che escono dal TDC. Ad esempio stare attenti, dal rifugio, a prendere il sentiero che resta in quota e non scendere verso il fiume.


 

 La seconda tappa è probabilmente quella più impegnativa, con dislivelli e sviluppo importanti. Il primo tratto costeggia in quota il Lac de Mauvoisin passando per il Col de Tsofeiret (2.630 m).  Dopo un lungo ma piacevole attraversamento si arriva alla diga ad arco più alta del mondo (1.840 m) dove conviene fare una breve sosta (15 minuti perché oggi i tempi stringono) prima di prendere il sentiero che risale (ripido nella prima parte e poi decisamente più dolce) al Col de Otanes (2.846 m). Mille metri di dislivello tutti d’un fiato per godersi lo spettacolo, giunti al passo, del Glacier de Corbassiere. Il bianco del ghiacciaio, l’azzurro del cielo, gli impressionanti seracchi uniti al grigio della roccia fanno da cornice all’arrivo alla Cabane F-X Bagnoud a Panossiere. Da questa si seguono le indicazioni per la Cabane Brunet, passando sulla nuova passerella, costruita e inaugurata a luglio 2014 per evitare un tratto di ghiacciaio divenuto ostico. Un piccolo capolavoro architettonico che, fortunatamente, non contrasta troppo con l’ambiente tutt’intorno e che regala l’emozione del vuoto sotto ai piedi.


 

L’ultimo tratto della giornata, che conduce al rifugio, è tutto in quota o in discesa. Lo sviluppo è tuttavia notevole, soprattutto se affrontato dopo le 7/8 ore di cammino che conducono alla Cabane Panossiere.

 

17/08/2014 - Tappa 3 – dalla Cabane Brunet (2.103 m) a Bourg-Saint-Pierre (1.632 m)

Partenza ore 9,45 - arrivo ore 16,00 (con pausa pranzo di 30 minuti circa alla Cabane de Mille)

 


Il colore che predomina in questa tappa è il verde. Prati con mucche al pascolo e conche ricche di ruscelli e laghetti tanto da poter dire “Ah, questa sì che è la Svizzera delle pubblicità!”.

Dalla Cabane Brunet si giunge, senza troppo sforzo, al Col de Mille (2.472 m): stupefacente terrazzo sulle Alpi che, con guglie innevate e lingue glaciali che corrono verso il verde delle vallate, fanno da spartiacque tra Italia, Francia e Svizzera.

La bellezza del luogo ed il profumino che esce dalla Cabane de Mille valgono una breve ma soddisfacente pausa pranzo.

La discesa verso Bourg-Saint-Pierre è molto lunga e a tratti monotona. Arrivati al paese conviene pernottare all’Hotel Napoleon (il primo che si incontra proprio alla fine del sentiero e vicino alla fermata del bus che servirà la mattina seguente per raggiungere la partenza della penultima tappa). Cucina tipica, squisita, e personale gentilissimo.

 

18/08/2014 - Tappa 4 – da Bourg-Saint-Pierre (1.632 m) a Saint-Rhémy-en-Bosses in bus. Questo trasferimento permette di ripartire lo stesso giorno dalla frazione di Saint-Rhémy (1.619 m) e di salire a piedi fino alla Cabane Letey Champillon (2.375 m).

Partenza da Sain-Rhémy ore 10,40 – arrivo ore 17,15


 
Un comodo bus che parte dal parcheggio dell’ufficio postale di Bourg-Saint-Pierre porta, in meno di un’ora, a Bosses e, in 15 minuti circa a piedi, si arriva a Saint-Rhemy, da dove parte la penultima tappa del tour.

Passando attraverso una fitta pineta che occupa l’intero versante della montagna e che ripara dal sole si arriva fino all’attraversamento di un fiume sulle cui sponde si trovano un paio di baite private e casolari.

Da questo punto inizia la salita che coincide con l’ultimo vero sforzo del tracciato: la salita al Col de Champillon (2.708 m). Il sentiero sale diretto il versante della montagna per poi insinuarsi, una volta svalicata la cresta, in una conca e poi ricominciare a salire a tornanti verso il Col. In cima si apre d lo spettacolo offerto dalle creste del Morion e dalla cima del Gran Combin.

 

La discesa verso il rifugio e veloce e piacevole.

Dal rifugio è possibile anche scendere a valle e concludere quindi il tour in 4 giornate. In realtà, non potendo partire a camminare la mattina presto (per via del tratto che si precorre in bus), conviene fermarsi un’ulteriore notte in rifugio e godere dell’ospitalità (e dell’ottima crostata preparata dalla gestrice).

Una valida alternativa per chi ha solo 4 giorni a disposizione è prendere il bus la sera prima (appena giunti a Bourg-Sain-Pierre) e pernottare a Saint-Rhémy, per mettersi sul sentiero la mattina seguente di buon’ora e concludere così il percorso in giornata.

 

19/08/2014 - Tappa 5 – dalla Cabane Letey Champillon (2.375 m) a By (2.048 m).

Partenza ore 9,50 – arrivo ore 12,30

 

 L’ultima tappa è quella che, in tranquillità, permette di ritornare laddove si era partiti (By, nel mio caso, Ollomont o Glacier).

Il sentiero si snoda interamente in quota e poi in discesa. Se si torna verso By si attraversano incantevoli prati verdi costellati da baite e malghe.

Un’ultima emozione è regalata da un passaggio “nella roccia”, più precisamente tra il versante della montagna e una lama staccata, messo in sicurezza dall’associazione del Tour des Combin con una griglia sui cui poggiare e piedi e alcune catene, ideale per una foto ricordo di quest’ultimo tratto.