Il Re dei Giganti, quest’anno, viene da Bergamo. Dalla Valle
Seriana, da Gandino, dalle sue, dalle nostre Orobie. Si trova a Courmayeur ora
Oliviero Bosatelli, vincitore dell’edizione 2016 del Tor des Geants. Ieri,
quando alle 13,10 e dopo poco più di 75 ore di gara ha tagliato quel traguardo,
tutta Bergamo era con lui. Tutti incollati al pc o allo smartphone per vedere
il live dell’arrivo. Tutti lo vogliono, tutti ne parlano a Courmayeur. Dicono del
vigile del fuoco bergamasco che ha dato uno stacco di 5 ore al primo degli
inseguitori e che ora sta volando a coronare un sogno. A fare da cornice al suo
arrivo ci sono gli striscioni degli sponsor e quel cartellone giallo
fluorescente su cui, al volto di Braccio di Ferro, è stato sostituito il suo,
quello del “Bosa”. Lo hanno definito così qua, Braccio di Ferro. Ma per noi
rimane sempre “il Bosa”. Ad attenderlo la moglie Nadia, che lo ha supportato ad
ogni punto di ristoro, fino alla vittoria. E poi spunta da là in fondo, come un
puntino taglia la curva ed è sul tappeto che conduce alla linea dell’arrivo. Il
pubblico lo acclama, lo speaker ripete il nome del nuovo Gigante e su Facebook
piovono i like. Corre ancora Oli, quasi al traguardo si gira e fa una corsetta
indietro, per battere il cinque a qualcuno che si trova in zona transenne. Poi
si rigira su se stesso e taglia il traguardo, con un salto, esattamente come
era accaduto sul palco di Orobie Ultra Trail. Anche lì vincitore con le molle
sotto ai piedi. Ci ha fatto sognare per tre giorni: da domenica, giorno della
partenza, fino a ieri. 330 chilometri, 24000 metri di dislivello positivo, 75
ore e venti minuti per attraversare tutta la Valle d’Aosta. Senza dormire
praticamente, facendo soste minime (la più lunga è durata meno di mezz’ora) per
alimentarsi. Un motore eccezionale, come ci ha raccontato Marco Zanchi, che in
montagna ha saputo dare il meglio. E pensare che fino a due anni fa, cioè fino
all’edizione 2015 di OUT (nella quale si era classificato secondo alle spalle
di Zanchi) nessuno sapeva chi fosse. Un ottimo maratoneta, certamente, ma non
un campione dell’Ultratrail. Lui, che quando arriva sul podio pare quasi in
imbarazzo, che non sa bene cosa fare o dire, che certo non è abituato a fare la
star, ma che ha saputo lasciarsi tutti alle spalle. Lui che al rifugio Bertone,
l’ultimo a pochissima distanza dall’arrivo, si è fermato a mangiare un piatto
di risotto. Quel piatto di riso, preso perché tanto il secondo è ormai troppo
distante per raggiungerti, è stato come il sorriso di Bolt alle Olimpiadi. Quel
sorriso buono, carico di spirito sportivo, rivolto al concorrente alle sue
spalle. Il sorriso di chi sa perfettamente di avere la vittoria in pugno, e
quindi di poterselo permettere. E poi, a tre ore circa dal termine della gara,
quando lo immagini già disteso nel letto e immerso in un sonno ristoratore,
arriva la sua chiamata. La voce è fresca, pimpante, quella di sempre. La
semplicità, valore che da sempre lo contraddistingue, non pare essere stata
minata da una vittoria tanto grande. A fine chiamata, però, ammetterà di essere
felice, molto felice, perché vincere il Tor non è una cosa che accade tutti i
giorni (e neppure a tutti! Ndr.).
“Un viaggio spettacolare – sono state le sue parole – e soprattutto
un tifo grandioso, per una gara che è davvero molto sentita. Ancora non
realizzo bene l’accaduto ma sono qua, ho
risposto a tutte le domande dei giornalisti, mi sono fatto fare un massaggio
nel quale credo di essermi addormentato 5 minuti, per poi risvegliarmi di
colpo. Ancora non riesco a dormire, sono qua con amici e voglio godermi questi
momenti, ma credo che appena toccherò il letto dormirò. Quello di non dormire è
stato un esperimento, volevo provare a non dormire, ed è riuscito. Ricordo le notti,
la luna quasi piena, il silenzio. Sono stato sempre presente con la testa. A
momenti arrivava un po’ di sensazione di debolezza, ma poi mangiavo e passava.
Mi sono alimentato sempre bene: pasta, riso, panino con prosciutto e maionese,
gelato, macedonia, birra. Niente barrette, niente di niente. Un paio di gel,
quando avevo terminato tutto. Sono arrivato e sono arrivato con le mie gambe.
Non lo speravo, era la prima volta. Ci ho creduto solamente quando ho tagliato
il traguardo”.
Oliviero, che fino ad oggi aveva coperto una distanza
massima di 180 chilometri (Adamello Ultra Trail), ora sa che può fare tutto. Ma
conoscendolo pensa ancora di non aver fatto nulla di che (così aveva detto nel
2015 dopo essere arrivato secondo alla Orobie Ultra Trail, o dopo averla vinta
quest’anno). Conoscendolo lo troveremo ancora sulle nostre montagne, a “darci lezione” di dedizione, fatica e
sofferenza. Come lo troveremo a bersi una birra post allenamento. Solo che da
questo momento, quando lo vedremo, diremo “Lui è il Bosa, quello che ha vinto
il Tòr”.